L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Marianna Pizzolato nell'Italiana in Algeri a Firenze

Lo scoppiettio di Isabella

 di Francesco Lora

Ripresa fiorentina dell’Italiana in Algeri con la regìa di Font: eccellente protagonismo della Pizzolato, Mimica da tenere d’occhio e in orecchio, attenta la direzione di Campanella.

FIRENZE, 20 marzo 2016 – La quotidiana serenità dell’opera di repertorio prima che inizino i fuochi d’artificio del Maggio Musicale Fiorentino, stagione invernale in faccia al festival primaverile. Si parla dell’Italiana in Algeri di Rossini all’Opera di Firenze, sei affollatissime recite dal 15 al 26 marzo, allestimento non nuovo ma già collaudato. Quest’ultimo ha regìa di Joan Font, scene e costumi di Joan Guillén, luci di Albert Faura e coreografia di Xevi Dorca; non brilla per novità ma concilia moderatamente in sé i modelli ottimi di Jean-Pierre Ponnelle e Dario Fo: dall’uno mutua l’organizzazione degli spazi, dall’altro una declinazione dinamica, giocosa e farsesca.

Quel che è certo, sulla scena l’intera compagnia di canto dimostra comprensione, disinvoltura e affiatamento, e dunque la bontà del lavoro svolto con gli attori. Capofila è Marianna Pizzolato, Isabella per antonomasia ai giorni attuali: è contralto nel senso rossiniano, e dunque estensivamente agiato da un estremo all’altro della gamma vocale; è virtuosa a prova perfetta di trillo, volata, roulade, gruppetto, ghirlanda di semicrome; ed è nel contempo fraseggiatrice morbida, ironica, semplice, ossia musicista sopraffina in personaggio scoppiettante di simpatia: un esempio di canto all’italiana nel repertorio buffo, con vera statura da prima donna.

Accanto a lei doveva esserci un Mustafà di riferimento odierno, Ildebrando D’Arcangelo: cancellato l’impegno, esso è stato rilevato da Pietro Spagnoli e Marko Mimica. Si riferisce qui del secondo, giovanissimo basso da tenere d’occhio e in orecchio, avviato alla specializzazione rossiniana – la migliore delle palestre possibile: ben venga – per quanto l’esotismo timbrico, la cospicuità del volume e la cautela nella coloratura lo destinino a un repertorio ottocentesco più inoltrato; a fronte di qualche approssimazione musicale e di una modesta attenzione alla parola, si apprezzano di lui la vaghissima presenza, la baldanza giovanile, la sfacciata ascesa ai Sol acuti, la cordiale ostentazione di materiale tanto grezzo quanto sopra la norma.

Azzardata è invece la scrittura del tenore Boyd Owen come Lindoro: egli viene a capo come può di una tessitura assai acuta e di una linea altrettanto ornata, palesando come i ferrei dettami della scuola anglosassone non ovvino – e anzi contribuiscano – a un timbro arido, a una fonetica viziata e a un porgere rigido. Petulante come da copione, solido nell’organizzazione vocale, buffo nato senza travalicare le righe, Omar Montanari impersona il Taddeo ideale per un’Italiana placida come fin qui descritta. Efficienti lo Haly di Sergio Vitale, l’Elvira di Damiana Mizzi e la Zulma di Lamia Beuque. Altamente consapevole ma poco analitica, in ciò accodandosi con distinzione agli usi invalsi, è infine la concertazione di Bruno Campanella, pago dei sempre sontuosi Orchestra e Coro del Maggio Musicale: la sua dote migliore sta nell’amorevole accompagnamento prestato ai cantanti, mentre spiace qualche taglio a casaccio nei recitativi (dove a tratti saltano sia rime e metro, sia la consecutività melodica e armonica delle frasi).

Foto Terra project - Contrasto


 

 

 
 
 

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