L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Turandot all'Arena di Verona

Avversa ebbe fortuna

 di Andrea R. G. Pedrotti

Infelice ripresa di Turandot all'Arena: perde smalto, in un'azione poco disinvolta e precisa, l'allestimento storico di Zeffirelli e il cast presenta parecchie mende. Il problema principale è però la concertazione greve e caotica di Andrea Battistoni, cartina di tornasole di una fase poco felice della Fondazione veronese.

VERONA, 25 agosto 2016 - Con l’Aida dello scorso 17 luglio pensavamo di aver assistito al punto più basso della Fondazione Arena di Verona. Ci siamo sbagliati, errare è umano, ma era frutto della speranza, purtroppo disattesa, di un risveglio. Sovente si afferma che una volta toccato il fondo non si possa far altro che risalire, ma, dopo i trionfi delle recenti stagioni, pare che il viaggio al centro della terra sia inarrestabile.

Errare è umano, ma perseverare è diabolico. Può accadere che una recita non vada per il verso giusto, fa parte dell’imperfezione di noi tutti, ma quando palesi mancanze in termini di applicazione, studio, tecnica e passione divengono seriali, dovrebbero sorgere dei dubbi. Il nostro riferimento non è casuale, ma direttamente volto alla concertazione ancora una volta disastrosa di un disarmante Andrea Battistoni, il quale riesce a sorprenderci in negativo per i problemi tecnici, drammaturgici e musicali. Passi non mostrare idea, almeno pratica, di accelerando o rubato; passi non distinguere un levare da un battere, ma qui si è trattato del mettere in ambasce un’intera orchestra, un palcoscenico. Nel 2014 avevamo assistito alla medesima produzione, con un cast quasi completamente differente, ma che sul podio vedeva un musicista come Daniel Oren [leggi la recensione]. Battistoni sembrava ignorare i dettami della partitura che poggiava sul leggio innanzi a lui e perfinole linee drammaturgiche fondamentali dell’opera. Ci auguriamo che non l’abbia studiata a fondo, perché se l’avesse fatto l'esito sarebbe stato ancora più grave.

Conviene andare con ordine, giusto per rimarcare alcuni dei punti in qui la partitura di Puccini è stata vilipesa. Solo alcuni per dover di cronaca, perché nemmeno la più minuta semibiscroma ha avuto scampo dall’esiziale concertazione di Battistoni.

Già dal primo atto il rapporto fra buca e palcoscenico è un’autentica chimera, con il direttore a dimenarsi in una gestualità plateale, che nulla aveva a che fare con la partitura o con quello che i professori stavano suonando. Le sezioni del coro, gli accenti, le dinamiche sono da subito completamente scollate in un gran caos generale. Le scene corali e d’assieme hanno una discreta rilevanza in uno spazio come quello areniano, che sa premiare notevolmente anche l’intimità, ma nemmeno questa ha avuto scampo. Le romanze di Liù e Calaf (“Signore, ascolta!” e “Non piangere, Liú!”) risultano di inaudita insipienza e il bel ricordo cromatico e semantico del 2014 si sbiadisce nella nostalgia.

Anche l’atto secondo non ha avuto mercé dalla mannaia di un direttore più spietato di Putin Pao nel trucidare il capolavoro di Puccini. Se si affronta un terzetto, sarebbe apprezzabile che, almeno di rado, i tre artisti impegnati cantino assieme o, almeno, con una certa unità. La scena delle maschere “Olà Pang! Olà Pong!”, al contrario è solo un gran pasticcio, che non evidenzia nessuno dei potenziali caratteri delle tre strane figure, che potrebbero apparire in una visione tradizionale (come accadde in Arena due anni or sono), o più trucida, come abbiamo avuto modo di vedere nella bella produzione di aprile alla Wiener Staatsoper [leggi la recensione].

Se qualcuno aveva sperato che almeno l’apertura della reggia potesse ricondurre il numerosissimo pubblico in un’atmosfera di fiaba e magia (caratteristica dell’Arena fino alla scorsa stagione) ha dovuto ricredersi, rendendosi conto che, anche questa, non era altro che pia illusione. La buca era completamente scollata al suo interno e avulsa, nella sua anarchia, dal palcoscenico, dove le comparse si muovevano stancamente, i pannelli venivano scostati con notevole lentezza e i movimenti delle masse erano gestiti con estremo pressapochismo. Anche la scena degli enigmi è stata maltrattata da Battistoni. Tralasciando le disarmanti mende tecniche, è la drammaturgia a soffrire maggiormente e nessun personaggio risulta inquadrato nel suo ruolo, ma solo in una disordinata confusione musicale e scenica.

Terzo atto, male come i precedenti: "Nessun dorma" passa nell’anonimato della pesante, quanto noiosa, direzione di Battistoni, ma la morte di Liù - “Tanto amore, segreto e inconfessato [...] Tu che di gel sei cinta”, una delle pagine più belle dell’intero catalogo pucciniano - trascorre con un solo pensiero nella testa: “ah, già, c’era anche lei…”.

Per il finale viene scelto quello consueto di Franco Alfano, già non bellissimo per natura, ma ulteriormente gravato dall’improvvida direzione di Battistoni.

Sul direttore ci limitiamo a questo, che, però, è solo una parte del disastro complessivo della sua concertazione.

Vocalmente Oksana Dyka (Tutandot) risolve la parte in maniera musicalmente sufficiente, nonostante alcuni suoni fin troppo schiacciati, che inficiavano un autentico sfogo del registro acuto. Scenicamente la sua prestazione è risultata piuttosto anonima e il personaggio non sembrava mai emergere. Ha cantato Turandot, ma non era Turandot.

Male il Calaf di Walter Fraccaro, troppo spesso afono e in palese difficoltà d’emissione. Scenicamente ci è apparso notevolmente impacciato e massimamente statico. Il cantabile e il fraseggio non erano di certo memorabili, così come le parti più eroiche, con un’esecuzione dell’aria “Nessun dorma” non più che corretta.

Non entusiasma nemmeno la Liù di Donata D’Annunzio Lombardi. È la prima volta che assistiamo a una Turandot (che sia in Arena o in un teatro al chiuso) nella quale un personaggio più eroico, passionale e profondo - parere personale, ovviamente - passasse tanto inosservato. Le movenze sono datate, fin a rammentare quelle di alcune dive del cinema muto. Liù dovrebbe essere maestra di filati, accenti passionali e languidi, ma della giovane adorabile schiava proprio non abbiamo visto nulla. Non convince nemmeno l’esecuzione della romanza di commovente bellezza “Signore, ascolta!”, né provoca le solitamente, immancabili, calde lacrime la tragedia della sua morte. Come detto prima, a stento ci siamo resi conto della dipartita della fanciulla.

Parimenti non entusiasma l’inconsistente Timur di Carlo Cigni. Male le tre maschere Ping (Marcello Rosiello), Pong (Francesco Pittari) e Pang (Giorgio Trucco). Tutti e tre non convincono scenicamente, a causa di tre vocalità troppo chiare e male assortite. Specialmente Rosiello risulta poco calato nel suo ruolo, al quale non conferisce il giusto spessore.

Completavano il cast Cristiano Olivieri (Imperatore Altoum), Paolo Battaglia (Mandarino) e Michele Salorni (Il Principe di Persia).

Male anche il coro della Fondazione, diretto da Vito Lombardi, ben lontano dalle eccellenti prestazioni che apprezzammo ai temi di Armando Tasso. Meglio il coro di voci bianche A.d’A.MUS. diretto da Marco Tonini e preciso e rigoroso il corpo di ballo (coordinato da Gaetano Petrosino) nell’esecuzione dei movimenti coreografici di Maria Grazia Garofoli.

Ingiudicabile l’orchestra della Fondazione, a causa della direzione di Andrea Battistoni.

L’irriconoscibile regia era di Franco Zeffirelli, così come le scene. I costumi, tradizionali all’eccesso, di Emi Wada e il disegno luci era di Paolo Mazzon.

foto Ennevi


 

 

 
 
 

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