L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

così fan tutte

La poetica del reality

 di Andrea R. G. Pedrotti

Dichiaratamente ispirata al mondo dei reality show, la messa in scena di Francesco Micheli per OperaLombardia appesantisce la raffinatezza di Così fan tutte con la zavorra della volgarità e di una sessualità troppo esibita. Difficile per gli interpreti plasmare personaggi efficaci e rispondere alle alte esigenze musicali della partitura.

BRESCIA, 23 ottobre 2016 - Con il secondo titolo in cartellone, dopo la Turandot [leggi la recensione], prosegue la stagione di OperaLombardia al Teatro Grande di Brescia.

Purtroppo il risultato non è stato il medesimo della bella inaugurazione e Così fan tutte è andato in scena nel pomeriggio di domenica 23 ottobre fra molte ombre e ben poche luci che potessero soddisfare il numeroso pubblico presente in sala.

L'idea del regista, Francesco Micheli, era quella di sfruttare il sottotitolo dell'opera di Mozart, La scuola degli amanti, trasformando Don Alfonso in un capocomico intento a istruire gli studenti d'un corso di recitazione nelle schermaglie fra amanti. Già questa è una scelta che si rivela nei fatti ampiamente discutibile, poiché la grande quantità di comparse sul palcoscenico non faceva altro che distogliere l'attenzione dalla scommessa che Don Alfonso concorda con Guglielmo e Ferrando, annullando il carattere privato del un patto ben poco etico stretto alle spalle delle fidanzate dei due giovani soldati.

La scena non si anima troppo nel corso dell'opera, con piantane e quinte a vista, nonché con alcuni semplici complementi d'arredo caricaturali nelle loro forme rotondeggianti e dagli sgargianti colori pastello, come in uno studio televisivo in cui la sottile vicenda viene platealmente esibita.

Il libretto viene tradito in più punti, ma quella che maggiormente desta attenzione è l'ostentazione di una volgarità ben lontana da un sano erotismo e dalle raffinatezze del testo di Da Ponte. Di fronte a una lettura come questa è impossibile non pensare al più grande Guglielmo (per non scordare il suo superlativo Don Alfonso) dell'epoca recente, ossia Alessandro Corbelli: la sua interpretazione del ruolo è l'esatta antitesi del personaggio portato sul palcoscenico del Teatro Grande. Nessun sottinteso e nessuna allusione in accordo con le indicazioni del libretto, bensì gesti che non avremmo associato nemmeno la pellicola omonima di Tinto Brass connotano due arie di Guglielmo: movimenti atti a sottolineare una sproporzionata dimensione del fallo, pronunziando “pennacchi d'amor”, o l'indicare, nel ripetere la medesima frase, il disegno di una banana su una maglietta indossata dal baritono. In tutto questo stupisce come, al contrario, il regista abbia completamente ignorato una frase maliziosa come “io vo' bene al sesso vostro, | lo sapete, ognun lo sa; | ogni giorno ve lo mostro, | vi do segno d'amistà” in “Donne mie, la fate a tanti”, aria che vede, però, il malcapitato Guglielmo ricevere una podersa ginocchiata nei genitali da parte di un'alta comparsa femminile, longilinea e, sinceramente, dalla magrezza eccessiva.

Un altro momento significativo della deludente regia di Micheli è il finale del primo atto, con Despina che, sotto le mentite spoglie d'un medico, utilizza per guarire dagli effetti dell'avvelenamento Guglielmo e Ferrando un vibratore, più facile da rinvenire in un odierno sexy shop, anziché nello studio di qualche luminare del magnetismo animale. Sempre in questo finale i riferimenti sessuali sono continui e la chiusura della sipario avviene su una grande (quanto pretestuosa) orgia.

Delude, parimenti, la componente musicale dello spettacolo, a partire da Gioia Crepaldi (Fiordiligi), soprano dalla fisicità imponente, ma dalla voce esile, poco sonora nelle note gravi e fissa nel registro acuto, sicuramente non adatta al ruolo assegnatole, che riechederebbe altra maturità e altro spessore vocale. Problema opposto per la Dorabella di Victoria Yarovaya, dotata di una vocalità sicuramente più corposa, ma tendente decisamente al contralto, mentre la sua parte richiederebbe sonorità sopranili che hanno posto la Yarovaya in qualche ambascia nel registro acuto, comunque risolto con discreto mestiere.

Nella componente femminile del cast chi si è fatta preferire è stata la Despina di Barbara Massaro, che si disimpegna bene musicalmente, ma difetta di civetteria e malizia a causa sempre della regia di Micheli.

Male anche il Guglielmo di Pablo Gálvez, che appare più come un tenore che insiste sulla corda più grave, anziché un autentico baritono. Le due arie non sono eseguite con la necessaria incisività e la genericità di fraseggio pesa per tutto il corso dell'opera. Si sono, inoltre, notate numerose diffcoltà nella gestione del fiato e del legato, che contribuiscono alla piattezza espressiva diffusa.

L'elemento più deludente del cast è stato il Ferrando di Matteo Mezzaro, il quale si è trovato costantemente in difficoltà nel registro acuto, che pareva non girare correttamente, pur in una parte dalla tessitura certo non particolarmente ostica. “Un'aura amorosa” è interamente eseguita in mezzo-forte, senza alcuna sfumatura o variazione di colore. Le cose non vanno meglio, tuttavia, per quanto concerne la cavatina “Tradito, schernito dal perfido cor”, dall'espressione perennemente anodina.

Andrea Porta, il veterano del cast, semplicemente non dimostra di essere Don Alfonso: manca completamente nella definizione del parsonaggio la saggezza di chi ha molto vissuto e ben conosce la natura di uomini e donne. Poco o nulla della consapevolezza e dell'esperienza del filosofo, sostituita da numerosi portamenti fuori stile, accompagnati da altre bizzarre trovate registiche che portano lui (e Despina) a danzare balli tipici di un'autentica febbre del sabato sera, ma su una linea musicale e drammaturgica che nulla ha a che spartire con le loro movenze ed espressioni. Per buona sorte Don Alfonso non è un ruolo particolarmente impervio e alla fine la sua prova, per quanto non positiva nemmeno dal punto di vista vocale, soprattutto quando il recitativo tende all'arioso, si inquadra con sostanziale equilibrio all'interno dello spettacolo.

Poco incisiva anche la bacchetta di Gianluca Capuano, il quale si limita a una perfettibile esecuzione di un autore in cui l'emotività, più che irrompere inarrestabile e spontanea, dovrebbe sorgere da un'intelligente interpretazione. L'unità delle sezioni orchestrali non è sempre ineccepible, mentre i concertati sono eseguiti con discreta precisione, ma senza alcun mutamento d'intensità che conferisca un maggior dinamismo teatrale e psicologico.

Il Coro Operalombardia, diretto da Giuseppe Califano, affronta le poche pagine che lo vedevano impegnato con professionalità, senza incidere molto all'interno della produzione.

Le scene e le luci erano di Nicolas Bovey, i costumi dalla foggia contemporanea di Giada Masi. L'orchestra era quella dei Pomeriggi Musicali di Milano.

foto Favretto


 

 

 
 
 

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