L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

aya wakizono, irina lungu

Quadri da un'esposizione

 di Andrea R. G. Pedrotti

Torna al Filarmonico la collaudata produzione dell'opera di Bellini, in cui si apprezza la qualità ritrovata delle maestranze tecniche e artistiche veronesi, mentre il cast denota qualche squilibrio.

VERONA; 26 febbraio 2017 - I Capuleti e i Montecchi tornano a battagliare nella città che, nella tragedia di William Shakespeare, fa da cornice alle vicende d'amore e morte di Romeo e Giulietta.

La produzione che, firmata da Arnaud Bernard, ha fatto tappa in molti teatri negli ultimi anni - Verona, Venezia, Muscat e Atene - prevede l'azione all'interno d'un museo, con personaggi che paiono uscire da un dipinto, per esservi inquadrati nuovamente dopo il tragico finale.

L'idea generale si riduce sostanzialmente a questo, ma era risultata pienamente efficace in occasione della recita veneziana a cui assistemmo nel 2015 [leggi la recensione]. Nel corso della recita del 26 febbraio abbiamo riscontrato, invece, un'assenza di scavo drammaturgico musicale nella tragedia belliniana, con diversi interpreti fuori ruolo, assecondati (probabilmente per le poche prove a disposizione) nella loro singola personalità, causando una discontinuità nel pathos, a danno dell'intensità emotiva complessiva della partitura.

Anello debole della compagnia di canto certamente il Romeo di Aya Wakizono, che, dalla vocalità marcatamente sopranile, risulta quasi inudibile nel registro grave, flebile nei centri e, a causa dello sforzo nel cercare sonorità basse, schiacciata nel registro acuto. Tali mende risultano palesi nel corso della scena e cavatina “Se Romeo t'uccise un figlio”, con un'esecuzione della cabaletta “La tremenda ultrice spada”, che rendono ancor più manifeste le problematiche non tanto tecniche, quanto di tessitura e di volume. La Wakizono è stata coperta dalle voci dei colleghi sia nella scena con Giulietta “Sì, fuggire, a noi non resta”, sia in quella con Tebaldo “Stolto! Ad un sol mio grido”. Forse, sulla base di quanto detto, sarebbe valso più concentrarsi su un solo ruolo, anziché affrontare contemporaneamente, e nel periodo delle prove, Rosina al Teatro Verdi di Trieste. Del suo Romeo è da lodare il notevole impegno scenico e nella recitazione.

Migliore del cast si rivela la Giulietta di Irina Lungu, sebbene le sue caratteristiche vocali stiano virando con decisione verso quelle del lirico puro, rendendo il soprano russo poco adatto a ruoli belcantistici. È bella la sua interpretazione dell'aria di sortita “Oh quante volte, oh quante”, ma risulta squilibrata, per peso vocale con la Wakizono nel prosieguo dell'opera. Se positivi sono risultati gli accenti più drammatici, alcuni problemi si sono riscontrati nelle agilità. L'acuto conclusivo del finale primo è ben eseguito, ma eccessivamente preparato e poco naturale. Allo stessa maniera desta perplessità la sua esecuzione dell'aria del secondo atto “Morte io non temo”. Ricordiamo, inoltre, come nella recita veneziana la regia prevedesse quasi uno sfogo isterico da parte di Giulietta, intenta a strappate nevroticamente parti della scenografia, fino a una rovinosa caduta nel correre via. La Lungu strappava effettivamente le coperture dei quadri presenti sul palco, ma con notevole flemma, con un'esecuzione della cabaletta che palesava un evidente affaticamento. A suo merit,o il bellissimo finale, con un accento sulla frase “Ah crudel! Che mai facesti!” che da solo poteva valere il prezzo del biglietto, confermando la caratura artistica e il temperamento del soprano russo. Purtroppo, in quest'occasione, fuori ruolo.

Particolarmente adatto alla parte sarebbe stato il tenore Shalva Mukeria (Tebaldo), dotato di voce bellissima, ma di tecnica insufficente, specialmente nella gestione dei fiati. Pregevole, anche se poco espressiva, la sua interpretazione dell'aria “È serbata a questo acciaro”, ma non all'altezza è stata la cabaletta, con delle variazioni che, per armonia, dovrebbero prevedere delle puntature acute nel legato e nelle agilità, che, al contrario, erano sistematicamente omesse, a vantaggio di un acuto, ben centrato, ma completamente fuori stile, al termine dell'esecuzione.

Molto bene i ruoli di contorno con la sorpresa di un ottimo Romano Dal Zovo (Lorenzo) e un buon Luiz-Ottavio Farla (Cappellio).

Sul podio dell'orchestra della Fondazione Arena, per quanto riguarda questa produzione, abbiamo sempre ascoltato la concertazione di Fabrizio Maria Carminati: sicuro, preciso e corretto tecnicamente, fa certamente suonare bene l'orchestra. Tuttavia la sua lettura di I Capuleti e i Montecchi, anziché proiettarsi verso l'Ottocento, guarda eccessivamente a una linea esecutiva settecentesca. La scelta può essere filologicamente corretta, ma l'elegia diventa soverchiante rispetto al dramma, che non emoziona nel suo tragico finale. In assoluto si nota un grande equilibrio fra buca e palcoscenico, con notevole attenzione alle voci, ma la tendenza è quella di adattarsi alla personalità del singolo interprete a difetto di una drammaturgia efficace e uniforme.

Nota di merito alle maestranze della Fondazione Arena, che tornano a mostrare la precisione dei tecnici di palcoscenico, ed eccellente è la prova del coro, diretto da Vito Lombardi.

Le eleganti scene di Alessandro Camera erano pressocché fisse, ad eccezione dello spostamento di alcuni pannelli che identificavano i diversi ambienti.

I costumi di Maria Carla Ricotti erano di foggia quasi identica a quelli utilizzati per il Rigoletto dello scorso anno (con lo stesso regista)[leggi], con l'utilizzo di tinte purpuree per i Capuleti e di sfumature variabili fra l'azzurro, il blu e il nero per i Montecchi. Unico personaggio in abiti differenti è Giuleitta, sempre vestita di bianco. La regia era ripresa da Yamala-Das Irmici.

Lo spettacolo è stato salutato da un pubblico non numerosissimo se pensiamo alle ultime tre stagioni, con sostanziale freddezza e un leggero aumento di intensità nel calore al termine dell'opera e nelle celeri uscite finali.

foto Studio Ennevi


 

 

 
 
 

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