L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

margherita d'anjou

L’ironia in Meyerbeer

 di Francesco Lora

Scomparsa dalle scene per un secolo e mezzo, Margherita d’Anjou è stata di nuovo rappresentata al Festival della Valle d’Itria in uno spettacolo esemplare; all’ironica regìa di Talevi – un capolavoro da comprendere senza pregiudizio frettoloso – corrisponde l’elegante concertazione di Luisi, mentre la compagnia di canto è una galleria di ammalianti sorprese o confortevoli conferme, dalla De Blasis alla Petrone e da Rositskiy a Romano.

MARTINA FRANCA, 29 luglio e 2 agosto 2017 – Quante prime riprese operistiche in età contemporanea, nell’appena concluso Festival della Valle d’Itria 2017? Nessuna, dopo che lo scorso anno v’è stato addirittura battezzato un titolo tra i maggiori di Mercadante, la dimenticata Francesca da Rimini [leggi la recensione], insieme con altre novità assolute come i Baccanali di Stéffani [leggi la recensione]e La grotta di Trofonio di Paisiello [leggi la recensione]. Nel centesimo anno dalla nascita di Rodolfo Celletti, padre nobile del festival e dedicatario di questa edizione numero 43, il senso è invece stato quello di ricapitolare il teatro d’opera italiano attraverso quattro secoli di vita, molte facce stilistiche e lavori tuttora bisognosi di essere meglio indagati. La maggior urgenza l’ha sventolata la Margherita d’Anjou di Meyerbeer, che precede di quattro anni e due posizioni Il Crociato in Egitto del 1824 e di oltre un decennio l’esordio del compositore nel grand opéra.

È un lavoro semiserio disinvoltamente spaccato tra le eco belliche nell’atto I e le tinte idilliache nel II, posto in superbo equilibrio tra la cantabilità all’italiana del melodiare e l’ampio spettro germanico della strumentazione, dotato infine di due primedonne paritetiche – una titolare, soprano e regina; l’altra effettiva, contralto e amorosa – che si contendono gli affetti di un tenore eroe in battaglia, incline alla bigamia e spericolato anch’egli lungo il pentagramma. Nell’approcciarvisi, l’ascoltatore meno esperto è rasserenato dal riconoscervi il brillante linguaggio di Rossini; quello più esperto è infervorato dal trovarvi un linguaggio che, nel suo eclettismo stilistico e nella fame di nuove strutture, eccede per la verità il modello rossiniano. L’opera era già risorta in forma di concerto a Londra, nel 2002, con una compagnia forte di Annick Massis, Daniela Barcellona e Bruce Ford; in quella veste è passata a un CD Opera Rara; ma il previsto ritorno al palcoscenico con tutt’altra locandina, a Lipsia nel 2005, era saltato per ammutinamento della compagnia verso la regista.

Così la rinascita teatrale di Margherita d’Anjou ha avuto luogo a Martina Franca, nel cortile del Palazzo Ducale, il 29 luglio, con repliche il 2 e 4 agosto. Una sventura è che l’allestimento scenico non sia stato da subito coprodotto con un’altra istituzione che ne assicuri la ripresa: regìa di Alessandro Talevi, scene e costumi di Madeleine Boyd, luci di Giuseppe Calabrò, coreografie di Riccardo Olivier con al séguito i danzatori della Fattoria Vittadini. Ché quello di Talevi è un capolavoro di trasposizione socio-temporale, ove il discorso teatrale è non solo compreso con lucidità e restituito con chiarezza, ma anche condotto sì da elevare a testo i meri pretesti librettistici. Lungi dal compiacere facilmente il pubblico nelle sue aspettative oleografiche, il regista s’arma d’ironia – moneta non per tutti – e porta l’azione dalla Guerra delle Due Rose alla London Fashion Week. Ed ecco, la libera reinvenzione storica va a coincidere alla perfezione con le odierne lotte commerciali tra grandi case di moda, nel girotondo che coinvolge, tra paparazzi invadenti e informatori da strapazzo, una regina Margherita ancor più credibile come ricca ereditiera un Duca di Lavarenne ancor più credibile come amante-rockstar. Chi ne dubiti, osservi la messa a punto drammaturgica del Finale I. Nel libretto di Romani, la regina e il figlioletto muto s’aggirano nel bosco: cadrebbero nelle mani nemiche del Duca di Glocester, se il traditore Carlo Belmonte non si ravvedesse all’improvviso, inspiegabilmente, e non tornasse dalla loro parte. Nello spettacolo martinese, invece, ereditiera e prole sfuggono alla persecuzione dei paparazzi infilandosi in una discoteca di periferia, ove ad attenderli v’è la teppaglia vicina a una casa di moda rivale: la corruzione con una busta di cocaina, la priorità di un selfie col personaggio pubblico e il comune interesse commerciale contro la minaccia della stampa scandalistica vanno a costituire, con cinismo cristallino, la logica dei fatti prima mancata. Guai ad assopirsi: è una regìa cui non sfugge un solo dettaglio, fatta per osservatori anch’essi esenti da distrazioni.

Ironia nell’ironia, accade che nelle note di regìa Talevi dichiari la propria sfiducia verso il genere semiserio, e sembri così non avvedersi che, in nome del ritratto sociale, la sua lettura tiene in irraggiungibile equilibrio il serio e il buffo. Declinato in modo non più mordace bensì elegante, lo stesso equilibrio di evocazione tra due generi si trova nella concertazione di Fabio Luisi alla testa dell’Orchestra Internazionale d’Italia: incalzante nel vivido stacco dei tempi e venerante nell’accompagnamento del canto, in Luisi s’ascolta l’enciclopedia di risorse musicali di chi pratichi con uguale curiosità e passione ogni angolo del repertorio, al cospetto dell’onnipotente Staatskapelle di Dresda ovvero di una compagnia di cantanti giovani cui fornire un esempio.

Si impone subito la coppia delle primedonne. Magnifica è Giulia De Blasis nella parte del titolo, la più onerosa da lei mai portata ufficialmente in scena. I corvi potranno appigliarsi a qualche passaggio d’agilità che col tempo diverrà più sgranato, ma già ora v’è il dono raro di condurre l’impegno con costante naturalezza di modi, pregnanza d’affetti e freschezza di timbro, non senza precludersi il salto a un Mi sopracuto fermo e squillante o il facile gioco in una tessitura piuttosto centrale. Sempre più sorprendente si ritrova a sua volta Gaia Petrone, impeccabile nell’articolare le diaboliche figurazioni minute del rondò finale, ma ancor più adorabile nel palpitante progresso psicologico del personaggio di Isaura e ammirevole per la conseguita continuità di registri dallo squillo di testa all’affondo di petto: ciò che si auspicava quando, perfezionanda alla Kammeroper di Vienna, già si riconoscevano in lei l’eccellenza dei mezzi e l’intelligenza dell’artista.

La terna è d’oro con l’aggiunta del tenore Anton Rositskiy come Lavarenne: un favoloso matto che nella grandiosa aria di sortita azzarda il Fa sopracuto, strappando a chi scrive un gran sorriso, e che in ogni parte dell’opera – dominando una sostanziosa e infiorettata scrittura da baritenore – ostenta cosa siano l’entusiasmo, la generosità, la precisa volontà di sfidare i propri limiti vocali innescando così la complicità col pubblico. L’irruzione comica nell’azione consiste quasi tutta nel simpatico personaggio del faccendiere Michele Gamautte: assegnata a Marco Filippo Romano, questi vi dispiega al completo l’esilarante e dotto armamentario del basso buffo, proprio quando s’iniziava a piangerlo estinto. Altri due bassi tengono ruoli di rilievo: l’imponente, roccioso, tremendo Bastian Thomas Kohl, cui ben s’addice l’arci-antagonistica parte di Glocester, e il giovane Laurence Meikle, che ha figura avvenente, sciolto gioco scenico e abnegazione lampante, ma che limiti tecnici da amateur lasciano ancora sottodimensionato rispetto alla parte di Belmonte. Benvenuto in Valle d’Itria, con la sua franchezza padana e la sua esperienza teatrale, il Coro del Teatro Municipale di Piacenza. E premature contestazioni, nell’applauso altrimenti universale, al regista e ai suoi collaboratori: vedere e rivedere il DVD dello spettacolo farà ricredere più d’uno; è presto, con Talevi, Luisi, i loro virtuosi e Meyerbeer, per fare gli scettici.

 


 

 

 
 
 

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