L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Dima Slobodeniouk, Baiba Skride

Breve viaggio musicale

 di Alberto Ponti

Accanto al Liszt e al Ravel più celebri, Szymanowski e l’ultimo Sibelius acquistano il sapore di una rivelazione

TORINO, 17 marzo 2017 - Esistono serate in cui la varietà del programma eseguito consente di viaggiare senza confini attraverso paesi, epoche e suggestioni enormemente differenti, venendo a comporre uno degli elogi più belli all’universalità dell’arte dei suoni.

Il direttore russo Dima Slobodeniouk, presenza ormai consueta nei cartelloni della stagioni Rai, giovedì 16 e venerdì 17 marzo ha fornito un mirabile esempio di esplorazione a 360 gradi lungo oltre mezzo secolo di Europa musicale.

Il primo dei Mephisto-Walzer (noto anche come Danza nella taverna del villaggio) di Franz Liszt (1811-1886) ebbe una gestazione assai lunga, passando attraverso varie elaborazioni, tra il 1858 e il 1881. Derivata dalla splendida versione pianistica, oscillante tra virtuosismo trascendentale e visionaria sperimentazione timbrica e armonica, la coeva trascrizione sinfonica soffre del difetto di gran parte delle pagine analoghe del suo autore, che nel passaggio dallo strumento alla grande orchestra, nel tentativo manifesto di imitare Berlioz e Wagner, cede quasi sempre in fascino e originalità. Il grandioso tende a farsi pesante e l’inquietante e misterioso ritratto del protagonista si traduce in una danza di ebbrezza stralunata, più vicina alle peripezie di un povero diavolo di E.T.A. Hoffmann che al principe del male immaginato da Lenau, dal cui Faust Liszt trasse ispirazione. Il maestro sul podio ha il pregio di smorzare certi eccessi roboanti della partitura, comunque non priva di una certa energia, con una lettura molto attenta sul piano ritmico e dinamico, facendo le prove per il seguente e più impegnativo Concerto n. 1 per violino e orchestra op. 35 (1916) di Karol Szymanowski (1882-1937), eseguito con la partecipazione per la parte solista della giovane lettone Baiba Skride. L’opera, strutturata in un unico ampio movimento, è assai ambiziosa e possiede una raffinatezza di scrittura notevole, anche se finisce per essere più rivoluzionaria nelle intenzioni che nei risultati. L’esordio animato e cangiante, privo di una tonalità definita, si stempera infatti in ampi squarci di un tardoromanticismo sempre latente, e il talento della Skride (sotto le cui dita si anima uno Stradivari già appartenuto a Yfrah Neaman) ha modo di dispiegarsi con struggente efficacia nel respiro delle volute disegnate dal violino. Impressionante per tecnica, intensità e controllo del suono ci è parsa la cadenza che precede la coda, rivelandoci una musicista in grado di eccellere nelle mezze voci e nel vibrato, di una cantabilità sempre assoluta, così come nelle doppie corde e nei colpi d’arco, lasciati cadere con la scioltezza e la personalità di un’autentica fuoriclasse.

Dagli esperimenti di un polacco cosmopolita come Szymanowski alle introverse musiche di scena che Jean Sibelius (1865-1957) trasse nel 1925 per La tempesta di Shakespeare il passo non è breve e neppure scontato. Il compositore finlandese, come Schumann, dà il meglio di sé nel pezzo di breve durata infondendovi un’efficacia anche drammatica spesso assente dalle sue più estese sinfonie. La scelta operata sugli oltre trenta numeri che costituiscono l’originaria successione comprende alcuni piccoli gioielli come l’Humoresque dall’ipnotica melodia dei clarinetti e il drammatico Largo che tratteggia il personaggio di Prospero. Anche il brano dedicato alla Tempesta del titolo si erge molto al di sopra dell’intento onomatopeico raggiunto con la contrapposizione di scale di semicrome, dipingendo in modo infallibile il conflitto tra stati d’animo tumultuosi.

L’emozione della platea per la scoperta di un vero capolavoro si traduce in un lungo applauso per il direttore e l’orchestra, interpreti impeccabili anche del poema La Valse (1919) di Maurice Ravel (1875-1937), con cui il cerchio si chiude, nella comunanza, puramente nominale, con il valzer lisztiano dell’apertura. La pagina densissima, in bilico fra la nostalgia per un tempo perduto evocato dagli spettri di un ballo viennese e la tragica realtà della guerra, in un vorticoso crescendo che ha tregua solo nella rapinosa e brusca conclusione, rimane un saggio della straordinaria capacità coloristica raveliana, esaltata da una conduzione lucida e generosa allo stesso tempo da parte di uno Slobodeniuok a cui va ascritto il merito, non indifferente, di aver saputo trarre il meglio da composizioni tanto dissimili tra loro.


 

 

 
 
 

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