L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Messiah di haendel a santa cecilia

Il Messiah di Koopman

 di Stefano Ceccarelli

Il più celebre (probabilmente) direttore barocco dei nostri tempi, Ton Koopman, torna all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con un suo cavallo di battaglia: il Messiah di Georg Friedrich Händel, in una versione accorciata all’uopo e ibridata fra quelle di Dublino e Londra. I cantanti sono tutti versati nel repertorio barocco: spiccano le voci della Arias Fernandez e del basso Mertens. La serata è un successo.

ROMA, 24 marzo 2017 – Dopo sei anni torna all’Accademia di Santa Cecilia il Messiah di Händel per la direzione di un assoluto specialista: Ton Koopman. Rispetto del testo, grande senso filologico nell’uso del parco vibrato e nella manipolazione delle sezioni (tagli, abbellimenti ecc.), virtù coniugate a un gusto sviluppato in una vita spesa per restituire tesori barocchi all’attenzione del mondo: tutto questo e altro Koopman profonde nella sua esecuzione händeliana, che vede la poderosa orchestra dell’Accademia giustamente ridotta. E un ‘autentico’ suono barocco emerge fin dall’iniziale Sinfony. Riusciamo già a percepire come Koopman affronterà, ancora una volta, la poderosa partitura del Messiah (opportunamente tagliata, per questioni d’orario, soprattutto della parte del contralto/controtenore, nella II e III sezione): senso delle architetture, attenzione ai particolari, ai colori orchestrali, alle volumetrie create dalle diverse compagini. «Organico ristretto, vibrato limitato, libertà nell’ornamentazione e rispetto assoluto della partitura»: queste le regole koopmanniane, come dal lui affermato nell’interessante intervista fattagli da L. Pellegrini nel programma di sala. Su tutto vigila una direzione che, pur dando alle volte quasi un senso di eccessiva attenzione agogica, di indugio, si scopre soprattutto nel suo senso del sacro, porto – in fin dei conti – con grande umiltà: Koopman dà pieno sfoggio di una gestualità compartecipe delle emozioni della musica, molto accentuata – particolarmente – nell’espressione del volto, che suggerisce quasi il senso della musica. Assolutamente stupendo il celeberrimo Hallelujah, cui segue spontaneo e incontrollabile uno scroscio di applausi. Stupendo perché Koopman non ci restituisce il ‘solito’ Hallelujah monolitico ai limiti dell’incolore, ma anzi spinge l’orchestra a effetti coloristici di pieno/vuoto, a sapienti alternanze di volumi, di crescendo, che donano vitalità, pur sempre sacra, senza attutire la naturale monumentalità del brano, ma rendendola quasi, per certi versi, leggermente più intima: Koopman coglie l’essenza dell’effluvio gioioso (sulla gioia come cardine händeliano molto insiste Koopman e molto la tiene presente nelle sue esecuzioni) e lo restituisce con naturalezza, senza attutire il messaggio potente di speranza. Il coro, qui e in tutto l’oratorio, è semplicemente magnifico. Vera punta di diamante dell’Accademia, il suo coro ci fa godere momenti straordinari: l’esplosione sulle parole «Wonderful, Counsellor» del For unto us a Child scioglie addirittura Koopman, essendo il primo momento in cui si abbandona da una direzione controllatissima; la mestizia di And with His stripes attesta la loro versatilità di accenti, come pure l’immediatamente successiva All we like sheep, straordinario, vivace e gioioso; o ancora l’attacco ‘a cappella’ di Since by man came death, molto espressivo; e il finale Worthy is the Lamb that was slain, dove il coro deliba tutte le vette del sacro, donando una calda catarsi nella fuga dell’Amen.

Anche gli interpreti scelti da Koopman sono all’altezza del loro compito. La miglior cantante della serata, barocchista in ascesa, il soprano cubano Yetzabel Arias Fernandez commuove nella sua entrée come angelo: il recitativo (curatissimo) And the angel said e l’aria Rejoice greatly, o daughter of Zion! mostrano una voce stupenda, chiara, limpida, squillante e potente ma duttile alle fioriture richieste. Ricchissimi i colori, smagliante il fraseggiare estatico in I know that my Redeemer liveth. Bravissimo anche il basso Klaus Martens, dalla carriera quarantennale e specialista del repertorio bachiano: ottimo, infatti, il controllo di una voce squillante e brunita, che sa duttilmente piegare tanto alle fioriture quanto al canto più stentoreo. Esempio magnifico ne è The trumpet shall sound, maestosa e difficile da controllare per l’intera ripetizione dell’aria con potente intervento dell’orchestra e della tromba. Il contraltista Maarten Engeltjes ci regala una buona performance: dotato di una voce chiara, ben rende il senso diegetico dell’intervento delle voci soliste nel Messiah, condendo il suo canto di buoni melismi e sensibilità di fraseggio. Come ben rende la gioia dell’annuncio della nascita del Cristo in O thou that tellest good tidings to Zion; come ben canta nella serafica He shall feed His flock like a shepherd. Liederista e barocchista, il tenore Tilman Lichdi, dalla voce lievemente scura, granulosa ma ben controllata, ci regala messe di voce, fioriture e opportuno fraseggio nella sua parte: Ev’ry valley shall be exalted ne è ottimo saggio.

La presenza di esperti e versati barocchisti e dell’eccellente orchestra e coro dell’Accademia assicurano una performance di valore assoluto. Koopman ha diretto il Messiah più di cento volte, un numero elevatissimo, e lo considera quasi un amico di vecchia data: lo tratta con un riguardo incredibile – pur nella sua intimità, appunto, con l’opera – tanto da aver buon agio di ‘miscelare’ le due conosciute versioni (Dublino e Londra) e di operare palpabilmente, col beneplacito di Händel, naturalmente, che lo fece secoli prima. Gli applausi calorosissimi alla fine tributano un giusto riconoscimento al valore dell’esecuzione.


 

 

 
 
 

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