Pathos e paesaggio
di Roberta Pedrotti
Webern, Schubert e Mendelssohn compongono il bel programma dell'orchestra del Comunale di Bologna guidata da Michele Mariotti. Il numeroso pubblico dimostra vivo apprezzamento per questo percorso fra forma e pathos, richiami alla classicità e suggestioni romantiche, introspezione e pittura à la Turner.
BOLOGNA, 28 aprile 2017 - Dopo le tempeste, un po’ quiete per il Teatro Comunale di Bologna. Una quiete che speriamo non apparente, ma stabile, salda e fruttuosa e che al momento ci regala un periodo di buona concentrazione dell’orchestra, unita a un lavoro più fitto e ravvicinato con il direttore musicale, che per questa stagione ha molto intensificato il suo impegno nel Teatro (cedendo peraltro il testimone nelle mani sicure all’eccellente Juraj Valcuha per il prossimo Peter Grimes prima di tornare con Lucia di Lammermoor).
I complessi del Comunale si trovano, dunque, ben preparati e compatti sotto la guida di Michele Mariotti all’appuntamento con un programma decisamente ben assortito, che affianca il Novecento viennese di Anton Webern e il suo declinare nei linguaggi dell’avanguardia un’intensa vena lirica e un amoroso studio verso il passato agli ultimi bagliori classici del concittadino Schubert, al limpido accarezzare suggestioni romantiche di Mendelssohn.
Nella Passacaglia di Webern la ricerca della massima precisione non sembra andare nella direzione di un suono chirurgico e analitico, bensì di un’attenta valorizzazione del colore più denso e scuro che il Comunale, con la camera acustica, conferisce all’orchestra. Il meccanismo sofisticato delle variazioni d’ispirazione barocca anche nella scelta tematica popolareggianti si sviluppa allora in sonorità pastose, ben calibrate in un rapporto fra dinamica, forma e pathos che non può, né potrebbe, prescindere dall'esattezza.
Alla luce di questo Webern si può gustare una Quinta sinfonia di Schubert che fa pensare a un Mozart immalinconito. La delicatezza delle forme e della scrittura orchestrale, chiaramente plasmata sul modello classico, si ripiega anche in una cifra intima che smussa e interiorizza l’eco delle ombre drammatiche del Salisburghese, in una tensione severa, persistente, ben controllata in tutto l’articolarsi dei quattro movimenti. L’introspezione, peraltro, non significa mancanza d’incisività: gli accenti sono netti, il fraseggio fluido e mobile in tutte le gradazioni dinamiche.
La seconda parte, tutta consacrata alla Scozzese di Mendelssohn, suggella idealmente ogni discorso: il richiamo a temi popolari, le radici saldamente affondate nella tradizione settecentesca (Bach e il classicismo viennese), ombreggiature romantiche qui suscitate dall’incanto dei paesaggi scozzesi. Le Highlands, le rovine e i manieri, le coste, i laghi, i venti, le brughiere di Ossian e di Schiller danno forma plastica al sentimento febbrile e inquieto del secolo che avanza sulle macerie dell’ancien régime spazzate dalle rivoluzioni. Mariotti sbalza con slancio e cura la pittura di Mendelssohn, ben attento a non trascurare, in parallelo con Schubert, la corrispondenza fra esteriorità e interiorità, fra in sé e fuori di sé, fra poetica intima e universale e musica ut pictura.
L’orchestra risponde duttile, e se la camera acustica tende a enfatizzare un po’ più del dovuto gli ottoni (sempre l'elemento più delicato e perfettibile) dalle ultime file del palco, nell’eco del folklore scozzese non è risultato di disturbo, bensì ben inquadrato negli equilibri della concertazione. Parimenti qualche tratto un po' più rivido nel Quarto movimento si esplicita come derivaziione dall'indicazione di Finale guerriero.
Prolungati e calorosissimi applausi da parte di un pubblico particolarmente numeroso.