L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

thomas quasthoff, chen reiss, costantinos carydis

Desio nei cori accendere di libertà

 di Roberta Pedrotti

Uno dei concerti di punta della stagione del Bologna Festival inanella ascolti non frequenti e di grande spessore etico e politico: l'integrale delle musiche di scena beethoveniane per Egmont e l'Ode a Napoleone di Schönberg seguite dalla Sinfonia n. 39 di Mozart. Protagoniste assolute le voci recitanti di Thomas Quasthoff, baritono dal formidabile carisma anche in queste vesti, e di Peter Schweiger.

BOLOGNA, 5 maggio 2017 - Ha abbandonato, anche per comprensibili problemi di salute, la carriera di cantante, e non può che dispiacere l’idea di non aver più occasione di ascoltare dal vivo uno dei più grandi interpreti di Lieder di cui esista documento discografico, ma quando apre bocca come attore Thomas Quasthoff ribadisce di esser sempre e comunque un sommo artista della voce, al di là del genere e dello stile che in essa prende vita. L’intelligenza musicale coesiste con un’intelligenza poetica e linguistica parimenti profonda, la malìa di una vocalità baritonale tanto duttile e naturale non sembra contemplare alcuno iato fra l’emissione e l’articolazione nel parlato e nel canto, così chiare, intelleggibili, incisive, schiette e raffinate. Maestro del recitar cantando, lo è che prevalga l'uno o l'altro aspetto.

Così lo troviamo al suo debutto bolognese come voce recitante in una preziosa esecuzione integrale delle musiche di scena di Beethoven per l’Egmont di Goethe. La stessa perizia che ha sempre governato il suo fraseggio nei Lieder, quei dettagli infinitesimali che caratterizzano le diverse voci dell’Erlkönig di Schubert, per esempio, senza concedersi a nessun effetto, plasmano la sua interpretazione d’attore e anche chi non abbia la fortuna d’intendere il tedesco e debba dipendere dalla traduzione proiettata sul fondo non può non goderne. Il musicista autentico, completo, colto si ravvisa prima di tutto nella concentrazione con cui segue nota per nota la partitura durante l’ouverture, gli intermezzi, le due canzoni di Clärchen (deliziosamente affini al futuro mondo mahleriano e affidate alla finezza cristallina del soprano Chen Reiss). Lo si percepisce poi nell’equilibrio con cui accorda la sua declamazione della sintesi della tragedia allo spirito beethoveniano, alla sua costruzione ritmica, alla sua sintassi interna e al suo ethos profondo. Nobile semplicità e quieta grandezza, fra Goethe e Beethoven, prendono corpo in una varietà minutissima d’accenti, toccanti e autorevoli nel dipingere la parabola dell’eroe delle Fiandre.

In una sapiente scelta programmatica, all’Egmont si abbina la versione tedesca dell’Ode a Napoleone di Schönberg, diversa declinazione di un comune filo conduttore etico e politico. L’invettiva di Lord Byron – quasi un negativo del manzoniano 5 maggio – si fa per il compositore ebreo austriaco esule negli Stati Uniti nel 1942 materia di scottante attualità e il fatto che il Bonaparte non sia mai citato per nome fa buon gioco alla ricontestualizzazione dell’atto d’accusa contro la tirannide. Qui, per l’animoso Sprechgesang dal velenoso e vivido sarcasmo, subentra la voce dell’attore e regista Peter Schweiger, nondimeno eccellente per la plasticità e l’incisività con cui compenetra lo spirito del pezzo.

Splendidi interlocutori per le voci sono i professori della Luzerner Symphonieorchester, complesso nella cui impeccabile compattezza sanno distinguersi preziosi dettagli solistici e che nella formazione cameristica richiesta da Schönberg – quartetto d’archi e pianoforte – si impongono per l’eloquenza di un’articolazione chiara quanto tagliente. A Beethoven, da parte sua, la bacchetta di Costantinos Carydis aveva imposto un’irruenza corrusca a tratti un po’ troppo ruvida, per quanto la teatralità acquisita dall’esecuzione integrale - e soprattutto il blocco conclusivo con il melologo, il sogno di Egmont e l’ascesa al patibolo accompagnata dal ben noto crescendo trionfale dell’ouverture - squaderni nuovi equilibri e ammetta più facilmente un tratto più cupo e scabro. Se ciò, tuttavia, non giova alla piena valorizzazione della scrittura beethoveniana, rischia decisamente di appesantire troppo la Sinfonia n. 39 di Mozart, epilogo non certo scontato, ma nemmeno gratuitamente stravagante, per il dittico su potere e libertà. Dopo un'abbinata così densa anche sotto il profilo verbale suona, infatti, gradita la contrapposizione dialettica con una pagina di cosiddetta musica pura in cui convivono l'idealità di forme classiche di matrice haydniana e quei chiaroscuri, quegli slanci drammatici e dinamici che faranno parlare di "un'Eroica mozartiana". Per questo è soprattutto nella Sinfonia che la bacchetta di Carytinos, rimasta protagonista, delude le aspettative e dagli intenti essenziali d'impeto e vigore tende a esiti un po' troppo grevi e sbrigativi. La qualità specifica dell'orchestra  e di quel che avevamo ascoltato fino a quel momento, e per il carisma dei solisti e per il fascino della riflessione politica, garantisce comunque piena soddisfazione.

L'auditorium Manzoni non è affollato forse come avremmo auspicato, ma il successo è pieno, sentito, caloroso.

foto Roberto Serra


 

 

 
 
 

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