Duo da cardiopalmo
di Antonino Trotta
Brave da incollare alla poltrona e belle da togliere il fiato, Khatia e Gvantsa Buniatishvili conquistano il pubblico del conservatorio di Torino con un recital in duo per l’Unione Musicale: il loro pianismo non convince ma stravince.
Torino, 10 Maggio 2017 – Tra le varie formazioni strumentali, il duo pianistico è una delle combinazioni più periclitanti per le potenzialità sonore di cui due pianoforti a coda dispongono. Non è quindi un caso se spesso questo ensemble suggella l’incontro di nomi prestigiosi del firmamento musicale. Complicità, sintonia, empatia, generosità, sono questi gli ingredienti focali che profondono l’equilibrio necessario affinché nessuno dei due musicisti prevarichi sull’altro disallineando l’asse dell’esecuzione da una posizione baricentrale e provocandone instabilità.
Se queste premesse costituiscono una condizione necessaria (ma non sufficiente) alla riuscita di un recital in duo, il legame di sangue che stringe le sorelle Buniatishvili è un ottimo punto di partenza per la realizzazione di una serata musicale di grande interesse.
Come aperitivo di benvenuto le sorelle offrono al pubblico in sala le Danze Ungheresi no. 4 e no. 5 di Brahms (nella versione a quattro mani, Khatia primo e Gvantsa secondo). Piccoli gioielli del compositore tedesco, noti anche a chi frequenta di rado le sale da concerto, le danze colpiscono immediatamente per il contrasto agogico con cui le pianiste li affrontano. La prima danza si apre in un clima molto solenne (poco sostenuto in partitura) che rende grande giustizia all’evanescenza delle armonie brahmsiane. Al sopraggiungere del Vivace e del Molto Allegro (eseguiti praticamente alla stessa velocità), la lettura pianistica diventa molto più vigorosa e di piglio. Lo stesso gioco di contrasti è reso in maniera ancora più accentuata per la seconda danza, la più famosa dell’intero volume, anche se il continuo rimbalzo tra poco ritardando e in tempo mina la fluidità della composizione.
Con la Suite No.2 Op.17 per due pianoforti di Sergej Rachmaninov si giunge immediatamente al punto apicale della serata. Opera di grande spessore, seppur tra i primi lavori del compositore russo, molto tradizionale nella forma e perfettamente aderente alle sonorità del tardo romanticismo russo, è una delle composizioni “di baule” per ogni duo pianistico che si rispetti. Fragorosi accordi all’unisono danno il via all’Introduzione (alla marcia) della suite. L’esecuzione marziale di grande impeto rapisce immediatamente l’attenzione dell’ascoltatore: il rapporto dialogico tra i due pianoforti è molto serrato, continui sguardi di intesa tra le pianiste suggeriscono l’idea di un duello musicale, in cui nessuno dei due pianoforti fortunatamente prende il sopravvento. I suoni sono corposi, non esagerati, complice anche la scrittura densa del pianista russo. Lentamente la marcia si spegne ed un morbido accordo ne segna la fine. Il Valzer (presto) è affrontato con grande audacia anche se la scelta del tempo intralcia l’emersione del canto nella sezione veloce. L’esecuzione è precisa e senza sbavature, le dinamiche molto ampie, l’uso del pedale di risonanza centellinato, ma il fraseggio non sempre è chiaro. La Romanza (andantino) designa il raggiungimento del momento più lirico dell’intero concerto: le trame timbriche si intrecciano in frasi di ampio respiro, i suoni sono vellutati, i colori ricchi di sfumature impressioniste. Appare invece bicromatica la Tarantella finale (presto), eseguita, come il Valzer, con slancio (prorompente Khatia, che nei momenti di maggior impeto sposta addirittura il pianoforte). L’esecuzione altalena tra il piano e il forte, i crescendo sono frettolosi, non perfettamente calibrati. La suite si conclude in un boato di accordi e in turbinio di applausi da parte del pubblico estasiato.
La Scaramouche op.165b di Darius Milhaud è una suite in tre movimenti non molto estesa che fu composta ed eseguita per l’esposizione internazionale di Parigi del 1937. È un lavoro dal carattere molto innocente - i temi sono semplici - affrontato dalle pianiste georgiane con spirito giocoso. Il primo movimento (Vif) appare forse un po’ superficiale perché i tempi veloci non lasciano spazio alla fruizione dei giochi polifonici. Il Moderé è molto disteso e il canto ben pronunciato. Grande slancio nella Brazileira finale, che trasporta immediatamente il pubblico in un’atmosfera latina. Il ritmo è coinvolgente anche se la melodia non sempre appare perfettamente proferita.
Nella Rapsodia Ungherese no.2 di Franz Liszt per pianoforti a quattro mani, che chiude la prima parte del concerto, Khatia assume il comando della nave e la sua tempra emerge in tutti i suoi pregi e difetti. Il Lassan della rapsodia (il lassan è la parte iniziale e lenta di una ciarda, di una danza ungherese o di una rapsodia lisztiana, che si contrappone per carattere ed agogica alla Friska, che invece è più brillante) si apre con suoni molto secchi, duri, quasi stridenti, le volatine sono approssimative e il carattere mesto e capriccioso di questa sezione risulta leggermente snaturato. La Friska invece colpisce solo per brillantezza ritmica, ma i suoni non sono sempre precisi e si percepisce qualche vuoto nei veloci passaggi con ottave.
La seconda parte del concerto prevede la Fantasia da Porgy and Bess di George Gershwin nella trascrizione per due pianoforti di Percy Grainger. Il brano è presentato con grande cura, l’accompagnamento non sovrasta mai il canto, nemmeno nei momenti più pregni di arpeggi. I giochi musicali sono molto pronunciati, le sonorità quasi chiaroscurali, ricche di luci, ombre e sfumature, i glissati fluiscono leggeri sulle tastiere. Il pezzo appare particolarmente magnetico nelle sezioni veloci, mentre qualche rallentato o rubato di troppo nelle parti più cantabili (ad esempio Summertime) lenisce leggermente gli effetti ritmici delle note sincopate.
La serata si conclude con La Valse, poème chorèographique di Maurice Ravel, definito dall’autore stesso “apoteosi del valzer viennese”. Considerato uno dei massimi esponenti dell’impressionismo musicale, al pari di Debussy, Ravel si contraddistingue per le melodie appassionanti ed eleganti, per l’abbandono al sogno e per un’architettura musicale fatta di incastri. Nella parte iniziale del valzer, le sorelle Buniatishvili infondono alla partitura una caratura mefistofelica e sinistra, una nebbia che poi si dissolve con intelligenza nell’esposizione del tema principale, maestosa e sonora come dovrebbe essere per un valzer della consolidata tradizione viennese. La parte centrale, ricca di variazioni, abbellimenti, a tratti quasi parossistica, si sposa perfettamente con il vigore tecnico e la robusta incisività ritmica delle sorelle. Peccato che questo stesso vigore tecnico, forse non ancora adeguatamente addomesticato, esploda nella parte finale del brano, dove l’esecuzione diventa più frenetica, sacrificandone decisamente la chiarezza espositiva.
Omaggiate da un caloroso applauso, le sorelle ringraziano il pubblico con una sensuale versione a quattro mani del Libertango di Piazzola. Khatia e Gvantsa Buniatishvili avranno sicuramente modo di affinarsi, di maturare, di smussare le angolosità. Se il loro pianismo a volte desta qualche perplessità per scelte che possono apparire più estetiche che meditate, serate come queste sono la dimostrazione che, come nel gioco, ha sempre ragione chi vince. E loro hanno vinto.