L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

torino, orchestra rai

Giunti sul passo estremo

 di Alberto Ponti

Sotto la bacchetta di Andrej Boreyko risplendono i testamenti sinfonici di Brahms e Šostakovič

TORINO, 5 maggio, 2017 - Uno dei grandi segreti della composizione musicale è riuscire ad esprimere il massimo con il minimo dei mezzi, anche quando si può disporre delle risorse apparentemente illimitate offerte da una grande orchestra sinfonica. Esemplare a questo riguardo è l'attacco della quindicesima e ultima sinfonia, in la maggiore op. 141 (1971) di Dmitrij Šostakovič (1906-1975). Due tintinnii dei campanelli, un breve inciso del flauto contenente la cellula melodica di tutto il movimento, tre note pizzicate degli archi: basta poco per spalancare le porte di un universo e allo stesso tempo tratteggiare in modo inconfondibile la cifra stilistica dell'autore. Sfuggente e misterioso, questo rapido Allegretto introduttivo (ispirato dalla memoria dell'infanzia, secondo le parole del compositore) si concede tratti di apparente e scanzonata spensieratezza, evidente nella citazione della cavalcata del Guglielmo Tell rossiniano, ma i tre tempi successivi, tra cupe fanfare degli ottoni e accenni di marcia funebre, scavano negli abissi inquietanti di profondità quasi insondabili. Su tutto emerge l'originalità e la genialità di una scrittura con pochi precedenti nel medesimo Šostakovič, con le sezioni orchestrali spesso impiegate a blocchi separati per creare impasti timbrici essenziali e diretti, senza un solo accordo di troppo, in un gioco raffinatissimo di rimandi interni che contribuisce al senso di unità e coerenza di tutta la partitura.

La direzione di Andrej Boreyko si distingue per senso della misura, efficacia drammatica e grande sapienza nel dosaggio dei mutevoli piani sonori dell'opera, raggiungendo il vertice nell'Adagio-Allegretto finale, con il suo tema principale imbastito sul leitmotiv wagneriano del destino e la strepitosa coda affidata alle sole percussioni su un pedale tenuto pianissimo dagli archi. La strumentazione a larghi tratti cameristica chiama in causa tutte le prime parti dell'Orchestra Sinfonica Nazionale, con una prestazione di grande rilievo a lungo applaudita, a cominciare dal violoncello di Massimo Macrì, eccellente esecutore di un lungo assolo nel secondo movimento.

Anche il doppio concerto in la minore op. 102 per violino, violoncello e orchestra (1887) è l'ultima composizione sinfonica di Johannes Brahms (1833-1897),il cui catalogo si arricchirà in seguito solo più di pochi lavori vocali e da camera. La coppia di solisti, Marc Bouchkov e Pablo Ferrández, entrambi classe 1991, dimostra un'intesa perfetta in un concerto che privilegia il dialogo quasi colloquiale tra i protagonisti rispetto ai passaggi di scoperto virtuosismo. L'empito e lo slancio dei precedenti lavori brahmsiani tendono qui a farsi da parte a favore di un procedere rapsodico ma pacato, tipico di chi si è ormai lasciato alle spalle le tempeste della vita. Rimangono, a imprimere l'impronta del genio, la purissima tensione costruttiva, con i temi strettamente imparentati tra loro, e l'armonia sempre generosa di modulazioni improvvise e talvolta assai ardite (da cui, più che da Wagner, prenderà l'avvio Schoenberg per la sua rivoluzione atonale).

Il violoncello di Ferrández colpisce con la bellezza di un suono caldo e rotondo mentre Bouchkov rivela da subito una personalità meno decisa ma supportata da una tecnica di prim'ordine, in grado di lasciarsi andare a momenti di autentica commozione nell'Andante con moto centrale.

Gloria per tutti, ma in particolare per Boreyko, sempre amato dalla platea torinese, che aveva saputo conquistare fin dall'apertura della serata con la prima esecuzione italiana di Nu.Mu.Zu. (2015) del georgiano Giya Kancheli (1935). L'espressione, mutuata dall'antica lingua sumera e traducibile come 'Io non so', è posta in epigrafe ad un ampio affresco orchestrale che vuole essere una riflessione sulle convinzioni di un ottantenne assai confuso in un mondo pieno di contraddizioni, come dichiarato in prima persona dall'autore.

Il direttore russo asseconda, con un gesto ora impercettibile ora rapinoso, i sommovimenti tellurici di un pezzo godibile e sorprendente nel suo aperto incedere neoromantico, capace di coniugare un gusto edonistico per l'orchestrazione con il rigore dell'inciso bachiano (tratto dalla fuga in mi minore del primo libro del Clavicembalo ben temperato) che ne costituisce l'ossatura di fondo.


 

 

 
 
 

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