L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

anna bonitatibus

Rossini e gli altri, fra Gran scena e Sinfonia

 di Roberta Pedrotti

Nell'ambito del convegno internazionale Rossini 2017, si è tenuto a Pesaro un prezioso concerto di Anna Bonitatibus e dell'Orchestra Sinfonica Rossini che poneva a confronto musiche di Mayer e Generali con opere omologhe del giovanissimo Gioachino.

PESARO, 10 giugno 2017 - La musica fra le parole, un concerto a coronare un convegno [Rossini 2017] e aprire il circolo dei musicologi alla comunità, giacché il sofisticato programma proposto all’Auditorium Pedrotti è offerto a ingresso libero a chiunque sia interessato, coinvolto o meno nell’incontro della Fondazione Rossini.

Con l’Orchestra sinfonica G. Rossini, il coro del Teatro della Fortuna di Fano (preparato da Mirca Rosciani e con l'intervento solistico del basso Roberto Gentili) e la direzione di Benjamin Bayl, è protagonista la voce di Anna Bonitatibus, una cantante che sembra nata per mandare in visibilio i musicologi e tutti gli amanti delle più ricercate rarità fra Settecento e primo Ottocento. Consacrata intelligentemente la sua carriera al repertorio più sofisticato, lo esplora con musicalità finissima, totale dedizione e serissimo studio, osando variazioni originali quanto avvedute e cesellate di fino, nonché mezzevoci e pianissimi estremi quali si possono ardire con l’acustica dell’auditorium e la posizione avanzata rispetto all’orchestra. Così, se udiamo una voce assai ben educata ma forse non eclatante strictu senso, ammiriamo un’interpretazione d’altissimo profilo per musicalità, consapevolezza, intenzione, controllo tecnico e arte retorica. Tutto al servizio di un bel programma breve e intenso, sintetico quanto eloquente e accattivante nei suoi ricercati accostamenti.

Si apre con la Sinfonia del Conventello che Rossini quattordicenne compose per la compagnia musicofila radunata nella località romagnola attorno alla famiglia Triossi (gli stessi delle Sei sonate a quattro), uno dei primi se non il primissimo cimento orchestrale vero e proprio di Gioachino, che richiama con esemplare chiarezza le riflessioni espresse in apertura di convegno da Daniele Carnini, pur riferite a un contesto leggermente posteriore: alcuni elementi di quello che soliamo riconoscere come “stile rossiniano” sono già ben presenti, ma ancor più evidente è il “crocevia di cambiamenti” che nell’humus del primo Ottocento vedranno definirsi con chiarezza i tratti tipici del Pesarese. Dopo un’introduzione lenta si delineano due temi la ripresa del primo dei quali (che risentiremo qualche anno dopo nel Signor Bruschino) sfocerà in una coda che è già un efficace schizzo dei futuri sviluppi del crescendo, quello stesso crescendo che Pietro Generali si vantava, contro il primato rossiniano, d’aver inventato. Effettivamente, quando più avanti nella serata si ascolterà la sinfonia dalla Pamela nubile (1804) dello stesso non si potrà dubitare di un’articolazione formale e di un trattamento dell’orchestrazione non alieni rispetto a quel che sarà la sinfonia rossiniana. Ma, con buona pace del legittimo orgoglio di Generali di cui a Pesaro apprezzammo sia Adelina sia Gl’inganni della somiglianza, l’argomento dell’assoluta originalità di una creazione strutturale è in ogni caso talmente inconsistente per la gloria di un autore da non sminuire in nulla il valore di Rossini a vantaggio del più anziano collega. La conoscenza del contesto arricchisce la nostra comprensione del linguaggio e corrobora la consapevolezza di un’evoluzione dello stile che non procede per balzi secondo l’estro di singoli geni, ma si articola per vie più intricate e affascinanti, ragion per cui la ripresa della musica di Generali e di altri autori del primo Ottocento non deve servire alla ricerca di demiurghi e capolavori, ma alla coscienza di uno stile e di un mondo musicale non ancora noto come meriterebbe. Non è, poi, solo la questione del crescendo e dello sviluppo tematico a rendere interessante, questa sera, la sinfonia di Pamela nubile: il libretto di Gaetano Rossi (l’autore dei versi della Cambiale di matrimonio, di Tancredi e Semiramide) viene dalla stessa versione goldoniana della Pamela di Richardson che, a partire dal successo della Cecchina di Piccinni, vide risplendere le fortune dell’opera semiseria come pièce larmoyante sentimentale e borghese. Estremi eredi del genere saranno titoli come Linda di Chamounix o La sonnambula, mentre Luisa Miller potrebbe esserne detta la degenerazione in tragedia, ma è indubbio che con L’inganno felice, Sigismondo, Torvaldo e Dorliska, Adina e Matilde di Shabran sia stato Rossini l’ultimo grande esponente del dramma semiserio nelle sue diverse declinazioni.

Intercalati dalla due pagine strumentali, splendono, vero cuore del concerto, due esempi eloquentissimi di Gran scena, una delle forme più significative dell’opera seria rossiniana. Introdotta da una scena che può comprendere interventi corali, un recitativo accompagnato, un ampio preludio strumentale, essa prevede per l’eroe (o l’eroina) una breve sezione cantabile e, dopo una sequenza d’azione (anche recitativo, secco o accompagnato), va a concludersi con un più ampio rondò. Rossini vi ricorre in numerose occasioni, come per Tancredi o Falliero, ma quel che è più significativo è da essa sviluppi una delle sue più grandi e articolate creazioni teatrali (la Gran scena di Ermione, “compendio e immagine dell’intera opera”, per dirla con Bruno Cagli, in cui sono ben quattro i momenti solistici che si inanellano in una straordinaria progressione drammatica) e lasci poi le sue tracce nella purificazione formale di Semiramide (l’aria di Arsace, con l’introduzione corale, il recitativo e il declamato di capitale importanza, il cantabile e quella sorta d’illusoria prima cabaletta - “Sì, vendetta. Porgi omai” - prima della stretta vera e propria, “Sì, vendicato il genitore”). La Gran Scena, quasi una cantata innestata in un dramma in musica, è ben radicata nell’opera seria a cavallo fra ‘700 e ‘800, banco di prova supremo per l’interprete e il virtuoso, nodo fondamentale nella drammaturgia: così ci appare nell’esempio preclaro affidato ad Ariodante (al secolo il castrato Luigi Marchesi) nella Ginevra di Scozia di Giovanni Simone Mayr, ancora su libretto di Rossi. L’eroe è solo immerso nella natura a meditare sul (presunto) tradimento dell’amata quando il coro lo informa della condanna a morte che pende sulla testa della donna, convincendolo a battersi in suo favore, amante benché ancora persuaso d’infedeltà. Come si vede, situazione analoga a quella di Tancredi e per ambientazione (“foltissimo e vasto bosco […] alberi che ingombrano tutta la scena” o “catena di montagne, burroni scoscesi, torrenti che precipitano […] Selva che copre parte del piano e della montagna”) e per gli affetti (dolore e nostalgia per l’amore perduto, risoluzione all’azione e a battersi per l’amata/per la patria), fatto salvo il duello con Orbazzano già avvenuto per l’eroe siciliano in procinto di scendere in battaglia contro i Saraceni.

Anna Bonitatibus declina perfettamente il pathos neoclassico del dramma di Mayr desunto dall’Ariosto, evidenzando il collegamento patente con la Gran Scena dell’eroe eponimo di Ciro in Babilonia. Prigioniero in Babilonia di Baldassarre, l’imperatore persiano dà, nel cantabile “T’abbraccio, ti stringo”, l’ultimo addio al figlioletto e viene incalzato dallo stesso despota in un tempo intermedio d’azione che non concede spazio al recitativo secco – presente nella Ginevra di Scozia – ma presenta comunque una cesura fra l’agitato “Sì vedrai, crudel tiranno” e il più composto recitativo accompagnato “Deh! tergi, Sposa, alfin” prima del tenero rondò “E lieto, e contento”. L’alternanza degli affetti riguarda, quindi, in prevalenza l’alternanza degli interlocutori: tenerezza e dolore per il figlio pure morituro, affettuosa speranza in una nuova unione nell’aldilà con Amira. L’irruente coté eroico giovanile si stempera, dunque, nell’intimità degli affetti familiari espressi dalla maturità di un re e condottiero, di un padre e di uno sposo. La forma della Gran scena, nella sua identità di macrostruttura e di funzioni musicali e drammaturgiche, esprime diverse gradazioni d’affetti e diverse propulsioni d’azione o rassegnazione anche nell’articolazione dei tempi intermedi d’azione: va, pertanto, tributata una lode ulteriore va ad Anna Bonitatibus e a tutti gli interpreti per aver così ben delineato sia la chiarezza formale sia l’ethos delle due scene, l’immanenza teatrale ed espressiva e la trascendenza delle strutture.

Fra gli applausi giunge il momento dei bis: la sortita di Tancredi dedicata a Sergio Ragni si riallaccia ancora ai temi dibattuti in convegno (Emanuele Senici aveva esposto la sua ricerca sulla diffusione popolare di “Di tanti palpiti”) e lo fa con un ricamo estremamente suggestivo d’accenti e variazioni. Il congedo è con la sublime, estrema semplicità del Laus Deo, una di quelle piccole perle che, consumandosi in men di due minuti nel mare magnum di Soirée musicales, Péchés de vieiellesse e altri pezzi da camera, si rischierebbe di non sentir mai cantare, se non fosse per artisti come Anna Bonitatibus.


 

 

 
 
 

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