Handel e Broschi, spaccato austriaco
di Francesco Lora
A Salisburgo e Innsbruck vanno simultaneamente in scena Alcina e Merope, spettacoli talvolta sovrapponibili, talaltra complementari e altrove contrapposti. Le prime donne Cecilia Bartoli e Anna Bonitatibus si impongono, i primi uomini Philippe Jaroussky e David Hansen si affannano, i direttori Gianluca Capuano e Alessandro De Marchi servono e attuano, il Regietheater di Damiano Michieletto se la vede infine con l’allestimento filologico di Sigrid T’Hooft.
SALISBURGO-INNSBRUCK, 10-11 agosto 2019 – Non succede a ogni piè sospinto, ma capita sempre più spesso, che nel volgere di quindici giorni sia facile assistere a quattro spettacoli i quali diano conto delle forme dell’opera italiana durante gli anni ’30 del Settecento. In queste pagine si è già riferito di un Catone in Utica di Vivaldi (Verona 1737), eseguito a Barga il 27-28 luglio scorsi [leggi la recensione], e di un Orfeo di Porpora (Londra 1736), eseguito a Martina Franca il 2 agosto [leggi la recensione]. Nella terza settimana l’attenzione dei settecentisti è passata a un’ulteriore coppia di titoli, nonché a due rassegne ambe austriache e a facile portata di pubblico e critica italiani: da una parte il Festival di Salisburgo, con sei recite della celebre Alcina di George Frideric Handel (Londra 1735), dal 5 al 18 agosto nella Haus für Mozart; dall’altra, il Festival di Musica antica di Innsbruck, con tre recite della rarissima Merope di Riccardo Broschi (Torino 1732), dal 7 all’11 agosto nel Landestheater del Tirolo. Non solo la contiguità di giorni e luoghi, ma anche e soprattutto una serie di temi comuni favoriscono una recensione congiunta dei due spettacoli, talvolta sovrapponibili, talaltra complementari e altrove contrapposti: può uscirne uno spaccato su approcci, problemi, soluzioni e impaludamenti connessi a lavori composti sì negli stessi anni, ma da un capo all’altro dell’Europa e dunque con taluni adeguamenti culturali.
Una curiosità: il libretto intonato da Handel è una rielaborazione dell’Isola d’Alcina di Antonio Fanzaglia, approntata sette anni proprio per quel Broschi che era fratello di Carlo, ossia di Farinelli. Tanto vale aggiungere che Riccardo era non solo congiunto del più celebre cantante dell’epoca, ma anche un compositore valoroso, forbito in tecnica e stile nonché capace di carriera autonoma. Le quattro ore di musica della sua Merope, basata su un libretto di Apostolo Zeno, esemplificano un alto livello di normalità nel teatro di una capitale italiana: recitativi di disinvolta lunghezza, arie che esaltano l’incedere dei versi, insomma confidenza in cantanti illustri che erano anche vertiginosi attori, e in un pubblico italofono in grado di afferrare le sottigliezze della parola. Differente è il caso delle tre ore e mezza di Alcina: composta per un pubblico che non praticava l’italiano, i suoi recitativi furono concepiti all’osso e le sue arie improntate alla massima espressività non tanto della parola cantata quanto del discorso musicale in senso stretto. A Torino le prime parti spettarono al soprano Farinelli e alla prediletta collega Vittoria Tesi, regina dei contralti e africana di sangue; a Londra – Farinelli stesso vi si era frattanto trasferito – spettarono invece al soprano Anna Maria Strada del Pò e al mezzosoprano Giovanni Carestini, il castrato che allora vantava più di ogni altro una rivalità alla pari con Carlo Broschi. E il quadro delle premesse è fatto.
Sia a Salisburgo sia a Innsbruck, il punto di forza risiede nella prima donna e ha in fin dei conti origine nell’essere costei italiana. Alcina è Cecilia Bartoli, che fa appello a uno sterminato patrimonio tecnico e scenico, e che in base a esso attua scelte spesso audaci ma sempre consce e degne di meraviglia; la parte non è un mulinello di semicrome: pone in rilievo soprattutto l’artista in grado di miniare espressivamente i recitativi non meno che le arie. Il caso si ripete nella Merope di Anna Bonitatibus, che è vocalista impagabile per vellutata omogeneità timbrica, vocalizzazione agiata e una tale arte retorica da rendere impossibile la perdita di una sola parola nonché del senso teatrale dell’intera, spesso immane frase. A esaudire le volontà della Bartoli si ascoltano un direttore, Gianluca Capuano, e un’orchestra, Les Musiciens du Prince, che sono entrambi ad personam e forse anche per questo eccellenti: l’uno poiché ha potuto attuare un lavoro ipercalligrafico, che non abbandona al caso alcuna pagina della partitura (si ascoltino, per esempio, le ingegnose variazioni nei da capo, puntualmente inserite nelle risposte degli strumenti al canto); l’altra poiché trabocca di piglio, colori e volume. È al confronto modesta la neonata orchestra del festival tirolese: legnosetta, monotona e pesantuccia, senza la levità tiepolesca che si addice allo stile sia francese sia napoletano, ma con un fiore all’occhiello nella macchina bellica di trombe e timpani.
A Innsbruck, il concertatore è del resto non un cavalier servente bensì l’illuminato ideatore di tutto il donchisciottesco, benvenutissimo recupero di questa Merope: Alessandro De Marchi. È un peccato che la partitura perda per strada molti stralci di recitativo oltre che tre delle quattro arie tenorili di Polifonte: queste ultime, per la verità, paiono cadere come conseguenza del forfait dell’improbabile Jeffrey Francis, sostituito all’ultimo momento da Carlo Allemano, lo scultoreo interprete di riferimento per simili ruoli, impossibilitato però a mettersi in gola l’intera parte in poche ore. Stupisce tuttavia, al cospetto dei tagli, la volontà di ripristinare i tre balli giustapposti ai tre atti del dramma, approntati da un compositore ignoto e poi andati dispersi: De Marchi li ha reinventati a partire da musiche di Carlo Alessio Rasetti, allora attivo a Torino, e Jean-Marie Leclair, nome meno attendibile. Tutto ciò è in vista dell’allestimento con regìa e coreografia di Sigrid T’Hooft, e scene e costumi di Stephan Dietrich. A dispetto del tiranneggiante Regietheater, qui ha luogo un esperimento di filologia non solo della musica ma anche dello spettacolo, con i bozzetti e i figurini antichi a ispirare le prospettive architettoniche dipinte nei fondali, gli ipertrofici abiti degli attori e l’elegante convenzione di movimenti in questi ultimi. Il pubblico si annoia? No: va in visibilio, scoprendo di preferire il restauro di un codice antico all’invenzione di uno posticcio.
Là ove De Marchi e la T’Hooft intendono evocare lo spettacolo come poteva essere nel 1732, tutelando dunque quanto più possibile nell’esecuzione il testo licenziato dagli autori, a Salisburgo la parte teatrale consiste invece nella regìa di Damiano Michieletto, nelle scene di Paolo Fantin e nei costumi di Agostino Cavalca, e persegue modi e fini antifilologicamente opposti. Libretto e partitura subiscono tagli, inversioni di scene e la dislocazione di un’aria «Mi restano le lagrime», piazzata arbitrariamente a costituire un nuovo finale: null’altro si ottiene, così, che un presuntuoso sabotaggio della consequenzialità logica nello schema drammaturgico dell’opera, e un’implicita ammissione di inadeguatezza linguistica da parte degli artefici dell’allestimento. L’idea teatrale sulla quale tutto dovrebbe fondarsi è il confronto specchiato tra l’illusorio mondo magico e la realtà nascosta dietro di esso, vale a dire, in particolare, l’invecchiamento di Alcina camuffato dietro una fasulla bellezza giovanile: ma tale idea, mutuata dall’Orlando furioso, non ha alcuna cittadinanza nel lavoro di Handel e condanna l’evidenza testuale a insoluto pretesto. Si ha sotto gli occhi, in ultima istanza, la solita cifra michielettiana: molto lavoro con le masse e violento contatto fisico, ma poco o nessun interesse alla componente erudita che educa lo spettatore, e un lavoro con i singoli attori che resta superficiale, confidando fin troppo sull’abilità pregressa di ciascuno.
È scabroso terminare il discorso sui cantanti. Delle favolose primedonne, si è detto: ma esse determinano anche una spietata cartina al tornasole per i colleghi. In Merope, oltre Allemano, si fanno ammirare Arianna Vendittelli, come altezzosa Argia, e Filippo Mineccia, come serpentino Anassandro: l’innato possesso della prosodia italiana assicura vividezza al loro materiale e fragranza al loro porgere. La naturalizzata Vivica Genaux, come Trasimede, è quasi parimenti scaltra e comunque armata di superbe cadenze. Ma accanto all’onestà di Hagen Matzeit, come Licisco, v’è l’inadeguatezza di David Hansen nella parte farinelliana di Epitide. In lui l’impegno non manca mai, né la musicalità, né l’aspra incisività d’emissione; ma la dizione è tale che, al confronto, Joan Sutherland sarebbe parsa Vittorio Gassman: si cerca invano conforto nei sopratitoli in tedesco; quanto a estensione, coloratura e risonanza, basta poi la sdegnosa aria «Sì, traditor tu sei» a denudare l’insufficienza dell’interprete innanzi a una parte, per lui, proibitiva. Il problema si aggrava in Alcina, non solo nello sfinito e tremulo Ruggiero di Philippe Jaroussky al cospetto della virtuosistica «Sta nell’ircana pietrosa tana», ma anche, collettivamente, nella sbiadita vocalità e nella monotona prosodia prestate da Sandrine Piau come Morgana, Kristina Hammarström come Bradamante, Christoph Strehl come Oronte, Alastair Miles come Melisso e Sheen Park come Oberto.
Alcina a Salzburg (foto Marco Borrelli e Matthias Horn)
Merope a Innsbruck (foto © Innsbrucker Festwochen / Rupert Larl)