L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Un dì, felice, eterea

 di  Andrea R. G. Pedrotti

Tutto il fascino dell'immortale Dame aux camélias raccontata da Dumas, Piave e Verdi, sfuma nell'insulsa e inconsistente produzione firmata da Jean-François Sivadier, ma si rianima nella bella concertazione di Giampaolo Bisanti, che declina nelle ragioni del dramma l'eccellenza dei complessi viennesi e lo spirito onirico del walzer che permea la città come la partitura. Meno felice il cast, segnato dall'indisposizione di Irina Lungu, cui subentra all'ultimo minuto la collega Ekaterina Siurina.

Vienna, 4 settembre 2019 - Nelle primissime righe di La dame aux camélias, Alexandre Dumas fils racconta come, data la sua giovane età, egli non abbia ancora la maturità per inventare una storia, ma solo per limitarsi a raccontarla. Anni dopo, diventato vecchio, egli recuperò a un'asta un biglietto con la frase “Non sono abbastanza ricco per amarvi come vorrei io, né abbastanza povero per amarvi come vorreste voi. Dimentichiamo dunque, voi un nome che vi dev'essere indifferente, io una felicità che mi diviene impossibile.” Dumas, nel regalare il prezioso cimelio a Sarah Bernhardt, accompagnò il dono rammentando alla celeberrima attrice che quel piccolo pezzo di carta altro non era che l'unica prova tangibile che la vicenda di Marguerite Gautier e Armand Duval fosse realmente accaduta e che i due personaggi letterari altro non fossero che gli alter ego di Dumas medesimo e della cortigiana Marie Duplessis.

La storia del romanzo è falsa, lo sappiamo tutti, il biglietto nel libro è leggermente più esteso e meno lapidario: dobbiamo forse pensare che Dumas abbia mentito? No, non lo fece. Alphonsine Plessis (vero nome di Marie Duplessis) fu effettivamente una sua amante e realmente vissero assieme nella campagna parigina. La Plessis era dotata di un'intelligenza fuori dal comune: ragazza della campagna normanna, imparò velocemente la classe dell'alta società parigina, gli equilibri dei salotti e, fatto assai raro fra le sue colleghe, parlava un francese raffinato ed elegante. Giovane Grisette - prima ancora di divenire Lorette - sapeva da tempo della sua condanna: afflitta da un male di petto all'epoca incurabile di cui soffriva ancor prima di giungere a Parigi, ambiva a vivere celermente. Si racconta che un giorno Alphonsine fu trovata, affamata, assisa a terra, su uno dei tanti ponti di Parigi e, quando le venne offerto un piccolo cartoccio di caldarroste, ella scrutò il suo benefattore con uno sguardo fiero, felino, vitale. L'occhio brunito di Alphonsine doveva essere realmente fuori dal comune, se a oggi il suo fascino avvince ancora le genti di tutto il mondo.

Capitava sovente che le cortigiane cercassero un amante giovane, giusto per provare l'ebbrezza d'un rapporto convezionale. Non fu propriamente il caso di Dumas, che di Alphonsine era coetaneo, poiché egli, a differenza di quanto scrive nel libro, si indebitò pesantemente per mantenere Alphonsine come unica amante. Non era abbastanza ricco (come disse nel biglietto) per amarla come avrebbe voluto, per averla in esclusiva. L'unico modo era poterla mantenere come dama dell'alta borghesia. Alphonsine non voleva questo,  nel profondo era ancora più sentimentale di quanto non l'abbiano descritta Verdi e Dumas. Sapeva che sarebbe morta di lì a poco, senza alcuna speranza. Dumas, in fondo soffrì della cosa, covando un astio, tipico dell'innamorato deluso, che proseguì negli anni. Si racconta che, mentre riordinava, assieme a una sua amante, i fogli del romanzo, scorrendo le ultime, strazianti pagine la sua compagna abbia cominciato a piangere e lui l'abbia ripresa con la frase “Smettila! Non me ne importa nulla di lei, l'ho scritto solo per soldi”.

Lo scrittore tentò di riabilitarsi, fingendo di esser accorso al suo capezzale nel momento del trapasso, ma era troppo tardi.

Dumas fu sconvolto dal fascino di quella donna, tanto da diventare borderline, da vivere una relazione che mai avvenne: il biglietto non fu sicuramente delicato e, se lei l'aveva scelto come amante “povero”, è evidente che un affetto reciproco esisteva. Alphonsine si legò anche a Franz Liszt, ma fu da lui abbandonata con un biglietto e il dono d'un cucciolo di cane.

La giovane della Normandia, morì sola, il 3 febbraio del 1847, in un sottoscala di Montmatre, potendo tenere per sé solo il materasso, secondo la legge francese dell'epoca. Si dice anche nel libro di Dumas che “aveva più cuore delle altre cortigiane” e questa fu una delle sue rovine. Bellissima, struggente ed emblematica l'ultima frase del film di Bolognini La vera storia della signora dalle camelie, quando Gian Maria Volonté riassume in un breve periodo, attribuito ad Alphonsine medesima, lo sguardo della povera Grisette, mendicante sui ponti di Parigi: “Non mi rassegnerò mai ad abbandonare questo mondo di banditi e prostitute”.

La traviata, come La dame aux camélias, è un il racconto di un sogno vissuto nella veglia di un uomo avvinto dall'innamoramento e, come tale, può essere visto e raccontato.

Questa generica premessa racconta solo un breve esempio della lettura che si può dare al racconto della donna che fu Alphonsine, Marie, Marguerite, Violetta, addirittura Camille in una trasposizione cinematografica. Nella produzione andata in scena alla Wiener Staatsoper, e firmata da Jean-François Sivadier non solo non c'è niente di tutto questo, ma, al contrario, non c'è proprio nulla. Manca totalmente uno scavo drammaturgico anche solo superficiale. La scena è nuda, con qualche pannello e movimenti ridotti al minimo. Sembra quasi una forma concertante. Luci e colori (sempre troppo scuri) sono inefficaci. Manca tutto l'aspetto dell'elegica trascendenza tragica che sta alla base della vicenda e che avrebbe potuto trovare terreno assai favorevole a Vienna, città dei walzer e unico luogo al mondo ad aver mantenuto gli equilibri del salotto ottocentesco pressocché immutati.

Il senso onirico della drammaturgia sta in un walzer che, se eseguito alla viennese, incrementa la semantica riassunta nell'espressione “un dì, felice, eterea”, che si perde in un tempo tripartito transfinito. Per fortuna, il senso intrinseco dell'opera è stato recuperato dalla bacchetta di Giampaolo Bisanti che, grazie a un attento equilibrio dinamico, sfrutta nel migliore dei modi l'eccellenza tecnica dell'organico viennese. Il concertatore italiano regala al pubblico locale, in entrambi i preludi, dei pianissimi degni del miglior concerto sinfonico, consentendogli una modulazione nel fraseggio che supplisce alle mancanze della regia. Non viene mai perso lo stile e ogni aumento d'intensità è conforme sia alla drammaturgia, sia all'equilibrio richiesto dalla partitura e dal rapporto fra buca e palcoscenico.

Molto bene anche la prova offerta dal coro della Wiener Staatsoper, diretto da Thomas Lang.

Nella compagnia di canto va registrata, purtroppo, la forzosa rinuncia alla recita da parte di Irina Lungu, sostituita dalla collega Ekaterina Siurina come Violetta. Il soprano russo, seppur privo del peso vocale richiesto dal ruolo, va senz'altro lodato per l'impegno interpretativo e per la discreta precisione musicale che gli consente di portare a termine una serata nella quale , fino a poco prima, non avrebbe certo immaginato di dover salire sul palcoscenico.

Thomas Hampson è ben lontano dal cantante che interpretò Giorgio Germont nella celeberrima Traviata salisburghese del 2005. L'artista resta sempre carismatico, ma scade fin troppo spesso nel parlato e, nel passaggio al registro acuto, è costretto a sbiancare l'emissione per giungere a note che, evidentemente, non sono più alla sue possibilità.

Delude molto anche l'Alfredo Germont di Charles Castronovo: l'emissione è costantemente forzata, i suoni gonfiati, a scapito della proiezione dello squillo. A differenza di Hampson, Castronovo delude anche sotto il profilo intepretativo, con una recitazione statica, un fraseggio monocorde e la totale assenza di sfumature cromatiche nel canto.

Il cast era ben completato da Donna Ellen (Annina), Margaret Plummer (Flora), Carlos Osuna (Gastone), Sorin Coliban (Barone Duphol), Hans Peter Kammerer (Marchese d'Obigny), Ayk Martirossian (Dottor Grenvil), Thomas Kber (Giuseppe), Hiro Ijichi (Commissionario), Roman Lauder (Domestico di Flora).

Per la parte visiva, oltre a regista, vanno rammentati Alexandre de Dardel (scene), Virginie Gervaise (Costume), Philippe Berthomé (luci), Boris Nebyla (coreografia).

foto Wiener Staatsoper / Michael Pöhn


 

 

 
 
 

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