L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Bohème a cartoni

di Antonino Trotta

Al Teatro Carlo Felice è in scena una buona produzione di Bohème: se da un lato il taglio ingenuamente giocoso di Augusto Fornari e Francesco Musante non convince appieno, dall’altro il versante musicale rassicura con le belle prove di Rebeka Lokar, Stefan Pop e Andrea Battistoni.

Genova, 15 ottobre 2019 –C’è un istante in cui la vita, con uno schiocco di dita, trasforma i bambini in adulti, i fanciulli in uomini: talora il passaggio sopraggiunge con largo anticipo, talaltra si rimanda l’occasione all’inverosimile ma, statene certi, quel momento arriva. La bohème di Puccini narra di questa tappa obbligata, del saluto alla «bella età d’inganni e d’utopie», vissuta con squisita leggerezza e, perché no, quel pizzico di comprensibile inconsapevolezza che altrove si potrebbe definire speranza. Ma, appunto, prima o poi si cresce e nel giro di nemmeno tre quadri la commedia apparentemente frivola e scanzonata lascia il palcoscenico al dramma, al primo contatto con ciò che in vita è ineludibile, quel freddo eterno che sfoglia il fiore più bello di tutta Parigi.

Ecco, a mancare nell’allestimento della Bohème in scena al Teatro Carlo Felice di Genova è proprio la poeticità di questa transizione, la dimensione cruda e crudele della realtà che dal terzo quadro in poi sopraffà la natura ammiccante del capolavoro pucciniano. Quel paese dei balocchi disegnato da Francesco Musante – che firma anche i costumi, sinceramente ingenerosi nei confronti dei protagonisti – e animato con vivacità da Augusto Fornari, quella Bohème cartonné che pare uscita da una fiaba per bambini, ben si presta a ritrarre i colori sgargianti del quartiere latino o incorniciare lo sboccio di un amore giovanile con tratto trasognante, onirico, ma quello stesso tripudio di colori e lineamenti grotteschi, seppur attenuato dalle attente luci di Luciano Novelli riprese da Angelo Pittaluga, da ingenuo finisce col divenire infantile sul finire dell’opera, quando le lacrime inzuppano i cartonati e nessuno ha più voglia di scherzare. Si tratta comunque di uno spettacolo assolutamente godibile – del resto, chi o cosa potrebbe mai affondare La bohème? – che non si discosta, se non nelle scenografie, dalla consolidata tradizione, arricchito il giusto con guizzi d’ingegno che scaldano il pubblico – molto carino il cambio scene, a mo’ di carillon, tra primo e secondo quadro – e anche qualche trovata più kitsch sicuramente evitabile – Rodolfo e Mimì si lasciano alle spalle la cancellata di Barrière d’Enfer inondati da una pioggia di coriandoli o petali rossi aspersi generosamente dagli inquilini dei complessi.

Tra i protagonisti, il cast di questa Bohème annovera due pezzi da novanta. Lei è Rebeka Lokar, strepitosa Leonora nel Trovatore inaugurale, ora al debutto nel ruolo di Mimì. Debutto che, data anche l’opulenza delle risorse di cui Lokar dispone, non può che essere positivo. Per il soprano sloveno la tessitura di Mimì è un gioco da ragazzi: l’emissione è sempre fluida e morbida, il fraseggio ovunque curato e musicale, impreziosito da un lavoro certosino sul colore e sulla sfumatura. Quanto alla costruzione del personaggio si tratta però di una Mimì ancora timida, da rifinire meglio sul piano interpretativo, anche concedendo all’impeccabile vocalista un attimo di tregua per lasciar più margine all’interprete che altrove si è espressa in maniera più convincente – soprattutto quest’anno che Tosca è in agguato a Novara e Macerata, con una Maria Boccanegra nel mezzo a Torino –. Al contrario, Stefan Pop è assai partecipe sulla scena e meno inappuntabile sul piano vocale. Il suo è un Rodolfo piacione che mostra sì qualche forzatura alle sommità del registro acuto – dove il timbro finisce con perdere un po’ della naturale bellezza –, ma risulta accattivante per il suo canto istrionico e baldanzoso, vibrante nel fraseggio, vario nell’accento. Accanto a loro, Francesca Benitez – in sostituzione dell’indisposta Lavinia Bini – propone una Musetta frizzante ed energica, brillante nell’aria anche al netto di qualche puntatura un po’ stridula. Michele Patti ha tanta bella voce che sommata all’importante presenza scenica fanno senza dubbio notare il suo Marcello. Peccato che talora l’intonazione appari imprecisa e il fraseggio nel complesso mai pienamente soddisfacente. Corrette le prove di Romano Dal Zovo (Colline) e Giovanni Romeo (Schaunard), molto buona quella del Coro del Teatro Carlo Felice istruito da Francesco Aliberti, ottima quella del Coro di Voci Bianche diretto da Gino Tanasini.

Infine Andrea Battistoni, bacchetta principale e principe del Carlo Felice che in questa occasione appresta una concertazione di rassicurante professionalità. C’è l’attenzione al colore, alla varietà di registri sempre annidati nel dettato pucciniano e il discorso procede sonorità ricche e linguaggio forbito: ora s’incapriccia nei passaggi più fanfaroni, ora s’inarca in parentesi riflessive più intime e vellutate, assicurando sempre un ottimo equilibrio tra buca e palcoscenico.

Teatro gremito e applausi calorosi per tutti. Del resto, si tratta pur sempre della Bohème.


 

 

 
 
 

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