L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Strauss musicista europeo

 di Alberto Ponti

Nei Vier letzte Lieder del compositore tedesco si avverte, tra crisi e tradizione, il respiro della storia

Non ce ne vorrà, da lassù, Massimo Mila se ci appropriamo della definizione con cui egli battezzò Bruno Maderna nel suo omonimo saggio pubblicato nel 1976 per applicarla anche a Richard Strauss (1864-1949). Pochi artisti hanno infatti dato l'impressione di essere legati in modo decisivo e quasi fatale al destino di un continente. Dal ragazzo di buona famiglia che sogna di visitare l'Italia (riportandone, ventiduenne, la poderosa fantasia Aus Italien), all'enfant terrible dei primi poemi sinfonici non intimorito dall'ispirarsi all'occorrenza a titoli sommi di letteratura e filosofia (lo shakespeariano Macbeth, il Nietzsche di Also sprach Zarathustra), dall'operista immerso nella classicità ellenica di Elektra, Ariadne, Daphne, Danae al ruolo di primo presidente della Reichsmusikkammer di una nazione che si apprestava a diventare il motore di una delle pagine più tragiche della storia del mondo, la vita di Strauss passa attraverso decenni di polemiche feroci intorno alla sua opera, una febbrile attività direttoriale e creativa in giro per il mondo, la collaborazione con alcuni degli ingegni letterari più brillanti dell'epoca (da Hugo von Hofmannsthal a Stefan Zweig), travalicando già a inizio Novecento i confini della Germania per assurgere a metafora della cultura europea sospesa tra l'eredità colossale del passato e le novità radicali dietro l'angolo. Uomo conscio del proprio valore, talvolta, stando alle testimonianze dei contemporanei, con una vena di antipatia, Richard Strauss erige con i quattro lieder composti nel 1948 (a cui l'editore Roth aggiunse l'aggettivo 'ultimi') un addio superbo e toccante alla parabola umana e artistica personale e allo stesso tempo a un mondo e a una tradizione che la guerra e la rivoluzione del linguaggio musicale avevano liquidato per sempre.

L'esecuzione che il soprano tedesco Dorothea Röschmann e il direttore statunitense Robert Trevino, entrambi al debutto con l'Orchestra Sinfonica Nazionale, regalano di queste estreme pagine insiste meno sul lato elegiaco e spesso commovente insito nei testi di Hesse e von Eichendorff per concentrarsi su una chiarezza e una lucidità del tratto musicale che lasciano dietro di sé una scia luminosa e serena. Non più fremito davanti all'incombere della fine (evocata nel verso finale de Im abendrot: 'Ist dies etwa der Tod?') ma la visione pacificata di un ultimo compito assolto con l'eleganza e il gusto per il lavoro ben fatto. La Röschmann dispiega un canto di grande potenza espressiva, assecondata dal podio con tempi sostenuti e un gesto audace, capace di scatenare senza paura il suono pieno dell'opulenta orchestrazione. L'intonazione sempre precisa, mai calante, che cavalca con scioltezza le arcate melodiche infinite della partitura, unitamente alla pronuncia madrelingua perfetta, la rendono un'interprete di primo piano dei Vier letzte Lieder, anche a costo di rinunciare a qualche sfumatura crepuscolare. Più eroismo che tramonto, più celebrazione orgogliosa che dissolvenza in una visione originale in cui pare di udire l'ammonimento di una voce fuori dal tempo: l'Europa di Michelangelo, di Dante, di Goethe, di Beethoven, è finita. Ne verranno altri, ma li dovrete attendere a lungo.

Con la grandiosa Eine Alpesinfonie op. 64 (1915), Trevino e l'OSN Rai si trovano davanti a una sfida esaltante e difficile: da un lato una scrittura dalle possibilità illimitate in grado di mettere in luce l'intesa e la bravura di tutti gli interpreti, dall'altro lato il trabocchetto di una pagina che, se ci si limita a una lettura di pura perfezione tecnica, rischia più di altre di diventare, almeno a tratti, insipida. Il maestro non perde mai il bandolo della matassa, riuscendo a valorizzare l'enorme varietà timbrica del pezzo. Ciò che più colpisce nella sua direzione è il senso di compiutezza e di unità: anche a costo di piccole e perdonabili imprecisioni in alcuni attacchi (assenti, di fronte alla complessità di certi passaggi, forse solo nelle incisioni discografiche), della compattezza sfiorata ma mai raggiunta di certi fortissimo (compensata nell'episodio dell'ascensione, Der Anstieg, da ottoni fuori scena con un'aura di autentica leggenda), è palpabile la percezione, attraverso la successione degli screziati tableaux del poema, dello svilupparsi della forma sinfonica con lucidità, precisione e rigore. Con il ritorno della notte il cerchio si chiude congiungendosi all'arcano si bemolle minore delle battute iniziali, e il braccio levato in alto di Trevino mantiene la sala col fiato sospeso in un incantato silenzio che i primi applausi rompono quasi con trepidazione.

Ogni vasto e complesso lavoro sortisce il miglior effetto se, al rinnovato ascolto, se ne colgono aspetti di novità, scoprendo proustianamente con nuovi occhi un paesaggio creduto conosciuto. Di fronte alla complessa natura dell'Alpensinfonie, non riconducibile a una sintesi unitaria senza contraddizione, il mistero si ripete e il viaggio compiuto dal pubblico torinese termina con il meritato riconoscimento per un direttore con carisma da vendere.

foto Maria Vernetti


 

 

 
 
 

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