L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Beethoven il rivoluzionario

di Alberto Ponti

Il violinista greco, nella duplice veste di solista e concertatore, presenta in un auditorium 'Toscanini' gremito due monumenti del repertorio ottocentesco

TORINO, 7 febbraio 2020 - In un passo del suo volume dedicato alla lettura della Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven (1770-1827), Massimo Mila lancia una frecciatina a Stanley Kubrick. Il critico si concentra sull'uso che in Arancia meccanica viene fatto dell'Inno alla gioia, trasposizione di quanto già presente nel romanzo originario di Burgess. Le scene di scioccante violenza a cui fa da colonna sonora vorrebbero impressionare per il contrasto tra il sentimento evocato dalla musica e l'azione sovrapposta ma, in realtà, a ben vedere, riportano una delle più alte icone della cultura occidentale alle sue origini: la strada. Non una road londinese degli anni '60, ma la strada della Parigi rivoluzionaria dove, tra scontri e barricate, si diffondevano La Marseillaise e altri canti di battaglia: passati nelle opere dei compositori coevi (primo fra tutti Grétry) eseguite nei teatri d'Europa, essi furono l'archetipo di memorabili idee del genio di Bonn, che pure mai mise piede in Francia. Melodie cantabili, militaresche e slanciate, spesso basate su gradi congiunti: come non ricordare, accanto all'Inno alla gioia, almeno il movimento iniziale del primo concerto per pianoforte e il secondo tema del primo tempo della Seconda sinfonia? Conoscendo l'attenzione maniacale di Kubrick per le musiche inserite all'interno delle proprie pellicole, nel caso di Arancia meccanica l'utilizzo della Nona non è casuale anche se il senso attribuito da Mila non è probabilmente quello inteso dal regista. Una provocazione, d'altronde, quando è frutto di talento e competenza può portare lontano e innescare insospettate corrispondenze tra epoche, luoghi e uomini diversi.

Mantenendo Beethoven quale filo conduttore veniamo così al Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 61 (1806) di cui Leonidas Kavakos ha offerto, giovedì 6 e venerdì 7 febbraio, un'interpretazione destinata a rimanere a lungo nella memoria del pubblico dell'auditorium Rai. Il pezzo, in apparenza lontano dallo spirito 'eroico', rivela in realtà, se si gratta appena un poco sotto il lirismo dei temi, una natura non meno rivoluzionaria di altri capolavori del catalogo dell'autore. Le note ribattute di timpano e archi all'esordio dell'Allegro ma non troppo rimandano, con gesto stilizzato, a un afflato guerriero non meno delle cascate di accordi del Kaiserkonzert Kavakos, per l'occasione solista e direttore, impressiona per l'estrema varietà dinamica ottenuta dallo strumento (uno Stradivari 'Willemotte' del 1734) e per la poesia interpretativa con pochi eguali al mondo non meno che per la tecnica strepitosa. Il musicista greco passa dalla pienezza impetuosa delle grandi arcate alla morbidezza delle puntate nel registro più acuto, ottenendo un suono sempre pieno, elegante, cristallino anche quando si fa talmente esiguo da parere il filo di una ragnatela che brilla in una notte di luna. L'Orchestra Sinfonica Nazionale, guidata per lunghi tratti dal suo solo sguardo si fa organismo docile e malleabile, capace di imporre il robusto respiro costruttivo dei movimenti veloci così come di seguire il solista nella sublime rêverie del Larghetto, dove nella parte centrale il gruppo degli archi sostiene l'incantata melodia del violino con pizzicati ai limiti della perfezione e della percezione, inverando in maniera esemplare il 'sempre perdendosi' indicato da Beethoven in partitura. Concerto nel concerto sono le cadenze eseguite da Kavakos, ampie, originali, audacissime tanto da portare a cinquanta minuti la durata del colossale lavoro. La prima in particolare, quasi a conferma dell'autentico carattere mascherato a lungo dalla nobile sobrietà della scrittura, scoperchia all'improvviso la zampata di un assolo bellicoso che chiama con sé il timpano, percosso prima dalle bacchette e poi dalla nuda mano del bravissimo Claudio Romano, in una girandola di invenzione timbrica che lascia lo stupefatto uditorio col fiato sospeso. Dilatata oltre il consueto è allo stesso modo la cadenza ad libitum, omessa in molte esecuzioni, di collegamento tra secondo e terzo tempo, dalla quale il Rondò scaturisce come un fuoco d'artificio di abbagliante virtuosismo. Tra le maglie del lineare 6/8 Kavakos pare giocare, grazie a un'inarrivabile scansione ritmica, col tempo e la sua elasticità, ora comprimendolo nella bellezza in sé compiuta di un istante fuggevole ora allargandolo verso la sospensione sull'infinito, prestando il fianco ai sussulti di uno stile già denso, dietro la facciata di classicità composta, di turbamenti romantici.

Le ovazioni trionfali di una sala strapiena per uno tra gli appuntamenti più attesi della stagione sono ricompensate, fuori programma, dall'Adagio dalla prima sonata in sol minore di Bach e si ripetono con entusiasmo non inferiore anche dopo la seconda parte della serata in cui il maestro si presenta da solo sul podio per la Sinfonia n. 4 in mi minore op. 98 (1885) di Johannes Brahms (1833-1897).

La visione di Kavakos è lontana dall'enfatizzare quanto di estremo vi è nell'opera, lasciando in disparte il clima nostalgico da secolo al tramonto e quasi già presago dell'imminente crisi del linguaggio per esaltarne piuttosto il senso di continuità con la grande tradizione del sinfonismo tedesco. Il suo gesto preciso si traduce allora in tempi sostenuti e incalzanti, nella ricerca di un suono sempre pieno e pastoso, coadiuvato da un'orchestra in splendida forma in ogni sezione, nel senso del fraseggio nitido e poderoso insieme attraverso una lettura che trova i suoi momenti migliori nella vasta perorazione dell'Andante moderato, intriso di una passionalità morbida ed elegante, e nella vigorosa passacaglia conclusiva. Tra le folate degli ottoni, rinforzati dalla cupa sonorità dei tromboni, e l'incessante e stringente dialogo contrappuntistico di legni ed archi si ha la sensazione di assistere non all'atto finale del Romanticismo ma semmai alla sua suprema glorificazione, pur in assenza del consolatorio happy end.


 

 

 
 
 

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