L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Prima del silenzio

di Sergio Albertini Mancuso

Prima della chiusura per l'emergenza Coronavirus, a Cagliari ha fatto in tempo a debuttare la produzione dei Pagliacci di Leoncavallo, dedicata alla memoria di Marcello Giordani che avrebbe dovuto esserne protagonista.

CAGLIARI, 28 febbraio 2020 - Si può scrivere una recensione di uno spettacolo lirico ai tempi del CoVid19 ? Si può. Forse si deve.

Si deve. Per il rispetto a tutti gli artisti che nei teatri di prosa, nelle cooperative teatrali, nei corpi di ballo, nelle fosse orchestrali si ritrovano d'un tratto in un tempo sospeso, surreale.

Pagliacci, quindi. Di Ruggero Leoncavallo, al Lirico di Cagliari. Con le ultime recite sospese. Assieme a tutto ciò che era stato programmato in seguito. Con l'intenzione (e la speranza) di recuperarle dopo. Un dopo che, al momento, francamente, mi lascia solo inquietudine.

Si può presentare l'opera Pagliacci di Ruggero Leoncavallo da sola. Non è necessario, né obbligatorio farla spesso convivere con Cavalleria rusticana o con improbabili accostamenti, da Zemlinski in giù (accaduto diverse volte, e dappertutto).

Si può. Permette agli ascoltatori/spettatori di goderne appieno, di portarsela via nel ricordo, visivo e musicale, in tutta la sua bellezza, in tutta la sua efficace drammaturgia.

Riprendendo un allestimento del Teatro Regio di Torino, dove – da sola – era andata in scena nel 2017, il Teatro Lirico di Cagliari ha fatto precedere alla sua esecuzione un comunicato in ricordo di Marcello Giordani, il tenore ragusano scomparso tragicamente lo scorso anno, che avrebbe dovuto interpretare il ruolo principale a Cagliari. Quest'ombra di morte, accolta con un caloroso e doveroso applauso da parte del pubblico, è un 'in memoriam' dovuto.

In primis, va elogiata la direzione di Lu Jia. Cinese, ricordiamolo, in tempi di strisciante e irrazionale razzismo. La sua direzione, senza toccare rarefazioni estreme, restituisce alla musica di Leoncavallo un tessuto sonoro di ampio respiro, lirico, a tratti tenero. Certi suoni dei violoncelli e delle viole dell'orchestra cagliaritana avevano un che di ambrato, di setoso, un tappeto sonoro morbidissimo che s'incuneava tra certe rudezze, con tempi scelti da Lu Jia meno ringhiosi, meno fragorosi di quelli spesso ascoltati dal vivo in altre produzioni dei Pagliacci. Un cast (quasi) ottimo: quel che più mi ha colpito è stata la Nedda di Rachele Stanisci. Soprano che ho apprezzato spesso in un repertorio belcantistico (una memorabile Norma a Piacenza, un Marin Faliero bergamasco); qui il suo timbro pastoso, personalissimo, ha disegnato una Nedda matura, inquieta, una donna che si avvicina alla mezza età e che ha voglia di riscatto, di vita. Non solo il suo canto è stato perfetto, ma certe posture, quell'abito rosso, quelle gambe aperte (peraltro, magnifiche gambe!) con ostentazione nel duetto con Tonio la facevano assomigliare a una Carmen bizetiana, provocatoria e debole, rancorosa verso il mondo e in cerca di tenerezza. Il Canio di Walter Fraccaro, secondo i miei gusti, appartiene a un modo antico di cantare; il rischio, sfiorato, è di andare sopra le righe, di esasperare la gelosia, di muoversi (e cantare) secondo stilemi che considero datati. Bergonzi o Bjorling, per fare due nomi, sapevano trovare accenti di pura malinconia. Il cantodi Fraccaro è di quel modo spesso definito 'generoso': acuti ben proiettati, squillo tonitruante, dizione ben articolata. Manca tuttavia una definizione interpretativa, il suo Canio è brutale, possessivo, ossessivo. Senza se e senza ma.

Ottimo mi è parso Marco Caria come Tonio; timbro bruno, maschio, ma canto tornito, senza alcun cascame di stampo 'verista' da vecchia scuola. Perfetto il Silvio di Andrea Borghini; nella sua serenata (cantata da un balcone di una casa diroccata; se non ricordo male nell'edizione torinese Arlecchino avanzava dalla sala verso la scena) Matteo Falcier ha avuto modo di far emergere una tecnica di primo piano. Completavano il cast i due contadini di Enrico Zara e Paolo Floris.

Se dell'orchestra s'è detto (gran bel suono complessivo, nitore assoluto di legni e ottoni), ancora una volta il coro, preparato da Donato Sivo, ha dato ottima prova, anche scenica.

Lo spettacolo di Gabriele Lavia, con scene e costumi di Paolo Ventura, è di quelli che piaciono al pubblico. Ambientazione da dopoguerra, una piazza di paese, rovine di case bombardate, scritte sui muri d'un decaduto regime, qualche manifesto patriottico, un po' di Zeffirelli con il carretto trainato dall'asinello, funamboli, trampoli e giocolieri, masse corali che entrano di qua ed escono di là. Mancavano due carabinieri, e poi c'era tutto. Funziona, e funziona bene. Un elogio ai magnifici parrucchieri e truccatori del Lirico che hanno restituito appieno quel clima neorealista in ogni singolo elemento del coro.

Applausi meritati, pubblico soddisfatto. Ultimi bagliori. Prima che calasse il silenzio sui teatri italiani.


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