L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L’italiana senza italiana

di Antonino Trotta

L’italiana in Algeri è il primo titolo del trittico rossiniano che segna la riapertura del Teatro alla Scala dopo la pausa estiva: riproposta nello storico allestimento di Ponnelle ripreso da Grischa Asagaroff, soffre per le prove poco convincenti della protagonista Gaëlle Arquez e di Ottavio Dantone in buca che ostacolano la rassegnata godibilità della recita. Di tutt’altro livello Carlo Lepore, Maxim Mironov e Roberto De Candia.

Milano, 13 settembre 2021 – Si parta subito con una premessa: riproporre un allestimento d’annata che nel corso del tempo è diventato anche il simbolo tanto di un teatro quanto di un importante momento storico, quello della Rossini Renaissance, non è in fondo una cosa così deplorevole, per diverse ragioni. Tra le varie, inserire un Rossini d’annata come preambolo a due nuove produzioni – che ci auguriamo siano davvero nuove – potrebbe rivelarsi uno scaltro espediente per provare a tracciare una traiettoria plausibile che descriva un’eventuale evoluzione nell’interpretazione del comico rossiniano. Ovviamente a teatro l’effetto museo sarebbe da evitare come il Covid, però è pur vero che l’eterno spettacolo di Ponnelle, ripreso da Grischa Asagaroff, ha almeno il merito, nell’assoluta ordinarietà del contenuto con cui le bellissime scenografie vengono riempite, di non esagerare con quella cocciuta volontà di far sganasciare i turisti che ancora oggi, e fin troppo spesso, storpia e annichilisce la natura surreale della comicità del cigno di Pesaro.

A queste recite scaligeri, dunque, ci si apprestava con una rassegnata serenità, dettata ora dalla consapevolezza che grandi novità non se ne sarebbero viste, ora dalla speranza – ancora in essere – che L’italiana in Algeri sia tappa di un percorso e non un buco riempito a caso. Questo si vedrà.

Il vero problema di L’italiana alla Scala, a conti fatti, è la totale assenza di una protagonista: Gaëlle Arquez c’è ma non si vede e non si sente. Se da un lato il canto può destare diverse riserve – il registro medio grave è fioco, in acuto vibra e tende ad aprire, le agilità suonano scolastiche e poco fluide – che da sole basterebbero a incrinare il valore della prestazione, dall’altro la totale assenza di un’idea precisa del personaggio pone il carico da novanta su una prova già deficitaria. Nel gineceo comico rossiniano Isabella è forse una delle figure più complete: astuta, sfacciata, ironica, volitiva, conturbante, persino eroica in quel rondò finale dove Rossini occhieggia a Tancredi e al futuro Arsace. Che Arquez non accarezzi nessuna di queste sfaccettature, portando sul palco un personaggio privo di carattere, è un problema non da poco.

Ed è un gran peccato perché il resto del cast è di tutt’altro livello. Maxim Mironov, Lindoro, si cimenta in uno dei suoi ruoli – Mironov ha già solo il physique du rôle del tenore amoroso – ed è modello di classe ed eleganza rossiniana per fraseggio erudito, legato d’alta scuola, agilità perfette e dinamiche quanto mai sfumate. Il Mustafà di Carlo Lepore è magnetico per l’imponenza di una voce timbrata, voluminosa, virile, articolata in una linea di canto che esplode nella gagliardia delle colorature e vibra d’accenti sempre diversi e pertinenti. Chi però regala un’emozione in più, sulla scena, è Roberto De Candia che nell’affrontare Taddeo porta con sé anche un pizzico del suo Falstaff: date per assodate le qualità vocali di rossiniano DOC che scolpisce la parola dalla prima battuta del primo recitativo fino all’ultima nota dell’ultimo concertato, sul palcoscenico De Candia modella un Taddeo – chi scrive lo ascolta per la prima volta in questa parte – che, rispetto al prassi consolidatasi a forza di routine, è meno scoppiettante, meno istrionico, meno prevedibile e di conseguenza molto più interessante sul profilo psicologico perché venato da una malinconia, da una delicatezza poetica che s’impone come forse l’unica novità della serata. Eccelle Giulio Mastrototaro, Haly dalla voce statuaria, e ben fanno anche Enkeleda Kamani e Svetlina Stoyanova, rispettivamente Elvira e Zulma. Ottima la prova del Coro del Teatro Alla Scala, istruito dal maestro Alberto Malazzi.

In buca Ottavio Dantone, alla guida dell’Orchestra del Teatro Alla Scala, è artefice di una concertazione di fastidiosa discontinuità: discontinua nello stacco dei tempi, discontinua nella tavolozza di colori, discontinua nel mordente della lettura stessa, discontinua nel valore del prodotto musicale finale che oscilla tra la valorizzazione di alcuni preziosismi strumentali – il cromatismo degli archi nella stretta del quintetto, ad esempio – a passaggi di invece di inaspettata pesantezza. Insomma una direzione disordinata che nel continuo provare e sperimentare sembra anch’essa, come la protagonista, non addivenire a un’idea ben definita e chiara del testo rossiniano.

Tra gli applausi si ascolta qualche isolata contestazione per Dantone che non smorza gli entusiasmi alle chiamate finali.


 

 

 
 
 

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