L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Rossini alla Scala, il dare e il ricevere

di Francesco Lora

Dopo quelle dell’Italiana in Algeri, le recite del Barbiere di Siviglia e del Turco in Italia si intrecciano: punto di forza è la lettura musicale di Riccardo Chailly e Diego Fasolis, rispettivamente, più che quella teatrale di Leo Muscato e Roberto Andò, mentre le compagnie di canto si distinguono più per educazione e diligenza che per genio e virtuosismo.

MILANO, 15 e 22 ottobre 2021 – Prima che La Calisto di Cavalli e L’elisir d’amore di Donizetti chiudano la stagione d’opera del Teatro alla Scala, nella ripresa dopo la pausa estiva il cartellone milanese è stato improntato al Rossini buffo con una trilogia: L’italiana in Algeri per quattro recite dal 10 al 18 settembre, nell’impolverato ma insostituibile allestimento con regìa, scene e costumi di Jean-Pierre Ponnelle; Il barbiere di Siviglia per sei recite dal 30 settembre al 15 ottobre, in una nuova produzione che non scalzerà la sua classica omologa ponnelliana; non La Cenerentola, infine, bensì Il turco in Italia, per cinque recite dal 13 al 25 ottobre, nel seminuovo allestimento visto una sola sera, il 22 febbraio 2020, prima che l’emergenza sanitaria imponesse la più lunga delle quarantene. Dell’Italiana si è già scritto [leggi la recensione], mentre vale la pena di trattare insieme Il barbiere e Il turco, non solo per il loro intreccio di date, ma anche per aspetti di parallelismo o complementarità tra i due spettacoli. Punto di forza, per entrambi, è la direzione dell’orchestra, da intendersi proprio e anzitutto come rapporto ottimale tra il concertatore e i professori: due modi antitetici ma entrambi attendibili. Riccardo Chailly, nel Barbiere, adotta un organico ridotto negli archi – a proposito: si è finalmente tornati a due strumentisti per leggio – e lo fa comunque incedere in punta di piedi; evidenzia con cordiale fraseggio e morbida sonorità di tradizione la continuità stilistica tra Rossini e il modello viennese di Haydn e Mozart; dà però l’impressione di sentirsi ormai stretto in questa partitura frammentata in piccoli “numeri” e scarsa di respiro sinfonico. Diego Fasolis, nel Turco, osa invece tutto il possibile e anziché invitare all’eleganza riscuote al ristudio: la sua orchestra passa dal ronzio allo scoppio e dallo strappo al sussurro, con estroversa mobilità agogica e timbrica, restaurando anche l’antica prassi del pianoforte accompagnatore, che suona sempre con l’orchestra ricavandosi una parte dalla lettura del basso. Entrambi i direttori, tuttavia, lasciano la tastiera da sola nel sostenere i recitativi secchi, contro l’uso corretto del trio con violoncello e contrabbasso, tanto più necessario nella vastità del teatro milanese; ed entrambi ammettono tagli nei medesimi recitativi, lasciando professionalmente intatti i “numeri”. A questo proposito, delicato è il caso del Turco, opera che nella sua tradizione ha accumulato ben cinque brani, su diciotto, dovuti a collaboratori o rielaboratori ignoti: la cavatina e l’aria di Geronio, la sortita di Narciso, il sorbetto di Albazar e l’intero Finale II; Fasolis li dirige tutti, anche quando i due brani di Geronio siano da intendersi, storicamente, alternativi l’uno all’altro, o quando i brani apocrifi determinino ingenue sospensioni del ritmo teatrale e musicale. Ma è pur sempre meglio ricevere qualcosa in più che soffrire qualcosa in meno.

Il barbiere ha regìa di Leo Muscato, scene di Federica Parolini e costumi di Silvia Aymonino; Il turco ha regìa di Roberto Andò, scene di Gianni Carluccio e costumi di Nanà Cecchi. Considerate le vie interpretative intraprese, fa gioco riferire in primo luogo del Turco. L’opera è metateatrale nella natura stessa del suo testo: Andò la asseconda con fare didascalico, come se la si stesse offrendo a un pubblico straniero, e si concede qualche neutra intemperanza (si veda, per esempio, il sorbetto di Albazar, mutato in provino del personaggio-attore davanti al poeta-drammaturgo, con tanto di espansione del recitativo ante). Anche Muscato, però, si picca di dare del Barbiere una lettura metateatrale, cosa nient’affatto insita nel testo: il Conte d’Almaviva diviene così un direttore d’orchestra ospite del teatro, Bartolo l’impresario, Rosina la ballerina étoile che – quale ne è la logica? – prende nel contempo lezioni di canto, Figaro il tuttofare che non rinuncia a radere barbe ma si presta anche come suggeritore, Basilio un improbabile cappellano dell’istituzione, Berta la segretaria e Fiorello il primo violino. Il problema è che questa stravagante ridistribuzione non già di ruoli, ma di mestieri – a differenza, per dire, del disinibito lavoro di Fasolis sul Turco – nulla insegna di nuovo al pubblico circa l’opera cui sta assistendo: sul palcoscenico della Scala, macchina perfetta e connotata quant’altra mai, si vede paradossalmente rappresentata una vita teatrale incoerente, poco chiara, che non esiste, mista di prosa, canto e danza, nella quale, per giunta, ogni personaggio-nel-personaggio si esprime con le mossettine affettate e caccolose inflitte dalla tradizione più trita. Quanto alle compagnie di canto, si distinguono per correttezza e ubbidienza più che per genio e virtuosismo. Nel Barbiere, la consolidata esperienza di Antonino Siragusa, come Conte, si lascia alle spalle quasi tutti: di certo l’attenta ma fredda Rosina di Svetlina Stoyanova, nonché il pur simpaticissimo Figaro di Mattia Olivieri, che riempie la sala di Piermarini più col gesto che col suono; l’altro veterano, Nicola Ulivieri, come Basilio, non concede il fianco, mentre Marco Filippo Romano, come Bartolo, è un salvifico concentrato di arte buffa. Nel Turco si conferma il sospetto di vocalisti cui la Scala stia dando più di quanto essi possano dare alla Scala: Erwin Schrott istrioneggia esuberante come Selim, Rosa Feola è puntuale in tecnica e battute di Fiorilla, Giulio Mastrototaro non teme i sillabati di Geronio, Siragusa sguazza bene in Narciso come nel Conte, Alessio Arduini è un Prosdocimo di dizione incisiva e Manuel Amati un Albazar dal porgere incantevole. La tradizione del Turco, però, è stata prodiga di Callas, Devia e Bartoli, Ramey, Raimondi e Pertusi, Dara, Corbelli e De Candia vari: onde anche il melomane sulla quarantina potrà controbattere a questi, onesti, con ben altri elettrizzanti ricordi.


 

 

 
 
 

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