L'estetica del belcanto
di Luigi Raso
Sondra Radvanovsky e Riccardo Frizza sono i protagonisti di una serata che attraversa i finali della Trilogia Tudor di Donizetti e offre diverse prosepttive estetiche nell'interpretazione donizettiana.
NAPOLI, 19 febbraio 2022 - Sondra Radvanovsky è una e trina per Le tre regine, spettacolo in forma semiscenica nato alla Lyric Opera of Chicago nel dicembre del 2019 e successivamente esportato al Liceu di Barcellona e stasera approdato al San Carlo di Napoli. Nato dalla collaborazione tra il celebrato soprano statunitense e il direttore d’orchestra Riccardo Frizza, propone in scena un tris di sovrane Tudor: Anna Bolena, Maria Stuarda ed Elisabetta I, protagoniste, le prime due, dell’eponime opere donizettiane; la terza, Elisabetta I, di Roberto Devereux.
Maria Stuarda e Roberto Devereux condividono con il Teatro San Carlo un rapporto di “filiazione”: Roberto Devereux vide infatti la luce proprio sul palcoscenico del teatro napoletano nel 1837; sorte diversa per Maria Stuarda, che, invece, su quello stesso palcoscenico fu “abortita” alla prova generale a causa - le vicende storiche, sebbene avvolte dalla nebbia, sono ricostruite minuziosamente da Alberto Mattioli nelle illuminanti e documentate note di sala - della miope censura borbonica e forse del bigottismo della regina Maria Cristina di Savoia, moglie del re Ferdinando II e madre di Francesco II, ultimo sovrano del Regno delle Due Sicilie, morta a soli 24 anni nel 1836 in odor di santità. Fatto sta che il San Carlo nel 1835 perse, in favore del Teatro alla Scala, la prima assoluta dell’opera; sorte simile, e per motivi analoghi, toccò poco più che un ventennio dopo a Gustavo III di Giuseppe Verdi, successivamente rappresentata (1859) come Un ballo in maschera al Teatro Apollo di Roma.
Ma torniamo all’oggi. Le tre regine propone, in rigoroso ordine cronologico e in simmetrica alternanza, le ouverture e le scene finali da Anna Bolena, Maria Stuarda e Roberto Devereux. A voler escludere la partecipazione al cast del Pirata di Bellini trasmesso in streaming e a teatro vuoto nel febbraio dello scorso anno (qui la nostra recensione), quello di stasera costituisce il vero e proprio debutto di Sondra Radvanovsky al Teatro San Carlo: un debutto all’insegna del belcanto in quello che con Rossini iniziò ad essere il centro italiano di produzione e codificazione par excellence di quell’epoca aurea del melodramma italiano; prima il Pesarese, poi, tra gli altri, Gaetano Donizetti dettarono e affinarono le leggi del melodramma dalla curia sancarliana.
Ad impressionare immediatamente è la ampiezza e la corposità della voce di Sondra Radvanovsky: una voce sontuosa, brunita, che risuona perfettamente in teatro, ma capace di celeri assottigliamenti di emissione al limite dell’incredibile, per quanto è naturalmente poderosa la colonna di suono emessa dal soprano. Eppure si nota e apprezza un fraseggio articolato, sbalzato talora fino alla spasimo, che alterna, nell’arco di poche battute e all’interno di una singola frase musicale, fortissimi, acuti, ora smorzati ora luminosi e perentori come una lama. Sondra Radvanovsky si mostra perfetta nel sostenere e dilatare in termini di mutevolezza di volume le arcate melodiche donizettiane, alle quali conferisce accenti drammatici, senza dubbio efficaci e suggestivi, ma che talora appaiono ultra petita rispetto a quanto immaginiamo definirsi belcanto. Chiariamo: non si può non lodare una vocalità così possente, che attualmente affronta sistematicamente le ardue scritture di Aida, Tosca, Turandot, Amelia (quella del Ballo in maschera, prossimamente alla Scala), ma alla quale evidentemente non si può chiedere di rinunciare ad accenti e inflessioni all’insegna di un pathos melodrammatico più spinto e non del tutto appropriato ad un certo ideale stile donizettiano. A mente fredda, riflettendo sull’ottima prova vocale della Radvanovsky, pensiamo che quello ascoltato in questa serata dall’alto pregio artistico è un belcanto la cui concezione esecutiva ci appare proiettata più in avanti negli anni rispetto ai canoni musicali, espressivi ed estetici degli anni ’30 del XIX secolo in cui fu creato. Un belcanto per intenzioni espressive - chiediamo venia per l’orrido quanto pregnante aggettivo - “verdizzato”, riletto all’insegna di ciò che avverrà dopo la stagione donizettiana, ricreato alla luce della poetica musicale dell’epopea verdiana. Con un paradosso, diremmo che quello della Radvanovsky è un belcanto più verdiano che donizettiano, sembrandoci parente, seppur non stretto, della Leonora del Trovatore, di Lady Macbeth, di Amelia del Ballo in maschera.
Un ideale di belcanto, questo, probabilmente riconducibile alla sensibilità e all’estetica dominante sulla sponda occidentale dell’Atlantico; su quella orientale, forse più fedelmente all’originale, declineremmo questa estetica secondo cifre espressive connotate da maggior compostezza espressiva, attraverso un discorso musicale che germoglia dalla forza e dal peso della singola parola, come tale innestata in un flusso ininterrotto melodico nel quale accenti, dinamiche e sentimenti, benché tra loro contrastanti, ritrovano quella reductio ad unitatem che nel fraseggio della Radvanovsky appare, almeno a giudizio di chi scrive, abbozzata. L’estetica, come complesso organizzato di fattori, è influenzato da latitudini, scuole interpretative e vicende storiche: lo stile e la concezione del belcanto, in Europa e - in particolare, potendone vantare orgogliosamente la paternità - in Italia differiscono da quelli targati USA: in questa affermazione non v’è giudizio di disvalore, ma di obiettiva presa d’atto di differenze culturali e di approccio esecutivo.
E, tornando al concerto di stasera, è proprio negli accenti tormentati delle pagine dal Roberto Devereux ("Vivi, ingrato" e "Quel sangue versato") che la vocalità della Radvanovsky suggella la fusione più appropriata tra le proprie intenzioni interpretative, grado di espressività e intensità drammatica con il proprio ideale belcantistico: le si perdona qualche suono grave eccessivamente gonfiato nel registro basso, qualche movimento troppo plateale, qualche acuto non tenuto a lungo e poco “coperto” che contribuisce a convincerci della visione che la Radvanovsky ha di questo repertorio e del quale abbiamo tentato in precedenza di fornire un’ipotesi esplicativa.
Più sfumata ed elegiaca, immersa in un vago ricordo nostalgico, è la Scena finale di Anna Bolena: l’assottigliamento e la morbidezza dell’emissione della possente colonna di suono della Radvanovsky risultano semplicemente sbalorditivi, soprattutto se confrontati con il calor bianco che infiamma la cabaletta finale "Coppia iniqua".
Intensa e proiettata in una dimensione già sopra gli affanni della vita è la sublime preghiera di Maria Stuarda "Deh, tu di un’umile preghiera", seguita dall’intenso "Di un cor che muore reca il perdono" che gronda di contrasti dinamici, timbrici e di accenti, e le cui frasi musicali risultano scolpite, al netto di una dizione talora non bene a fuoco, con fraseggio plastico.
Ognuna delle tre scene è salutata da un meritato tripudio di applausi.
Un nota di colore e di glamour: la presenza in scena di Paloma Picasso, stilista e designer figlia del mito pittorico del ‘900 Pablo, impreziosisce gli ultimi fotogrammi della scena finale da Roberto Devereux. Paloma Picasso, secondo il proprio istinto creativo, contribuisce alla svestizione di Elisabetta I dal suo sontuoso abito dai chiari riferimenti cinquecenteschi, apparendo quale Angelo della Morte che aiuta la sovrana, all’atto dell’abdicazione, a spogliarsi dagli emblemi regali. Una performance, per quanto non avulsa dal contesto musicale, di concisa suggestione.
Last but not least - anzi! - la calibratissima e ispirata concertazione di Riccardo Frizza, la perfetta resa orchestrale e gli altrettanti pregevoli, precisi e attenti apporti del Coro del San Carlo e delle parti secondarie che popolano Le tre regine.
Procediamo con ordine. Riccardo Frizza, specialista acclamato nei principali teatri lirici mondiali del repertorio belcantista e, in particolare, di quello donizettiano (dal 2017 è direttore musicale del festival Donizetti Opera di Bergamo) ha un’idea ben definita dell’estetica, dei canoni esecutivi e delle finalità espressive di questa stagione musicale; e, in particole, mostra di possedere quell’innato senso di appropriatezza stilistica nell’approccio. Sin dalla scintillante concertazione dell’ouverture dall’Anna Bolena ci appare immediatamente chiaro quanto Frizza abbia ben chiara la collocazione storica e stilistica della partitura, ovvero in quell’epoca che da Rossini (il sui “rossinismo” è tanto presente nell’ouverture di Bolena) conduce progressivamente a Verdi. Nella concertazione di Frizza, nel suo articolare le frasi musicali, nella cura perfetta degli innesti strumentali e, quindi, dell’insieme, nella cura e nel supporto alle esigenze del canto, degli interventi corali si riconosce l’intelligenza dell’interprete, la sua musicalità, e quelle attitudine dei maestri concertatori di saper “chiudere il cerchio” esecutivo e interpretativo nell’arco di poche battute musicale, senza fronzoli, grazie ad una buona dose d’istinto e sensibilità musicale. L’orchestra sotto la sua guida appare duttile, precisa, perfettamente calibrata e assemblata con l’elemento canoro: una lettura, quella delle ouverture delle tre opere e quella delle scene finali, che fa della pulizia, della precisione, dell’armonia tra le componenti strumentali e vocali, così come della composizione dei contrasti espressivi la propria cifra stilistica. Una visione che se non è speculare, secondo le impressioni espresse in precedenza, alle intenzioni della Radvanosky, ne è senza dubbio complementare, riuscendo ad ammantare l’intero spettacolo della necessaria aurea belcantistica.
Ha dalla sua un’orchestra in stato di grazia per bellezza e luminosità di suono, intensità delle dinamiche, senso del fraseggio, precisa e scintillante, ricca di colori, tutte caratteristiche che, pur essendo precondizioni per la buona riuscita di ciascuna performance lirica e/o sinfonica, attestano ancora una volta - qualora ne occorresse conferma - quanto, a parità d’orchestra, la personalità del direttore d’orchestra sia fondamentale nel determinare e rovesciare le sorti di uno spettacolo, anche tra due serate consecutive. Il Coro del San Carlo e il suo direttore José Luis Basso ci hanno ormai abituato a serate dall’alto valore artistico, così come ad una versatilità esecutiva ed espressiva che ci viene confermata ad ogni ascolto.
Negli stessi giorni in cui affronta (qui la nostra recensione ) Aida, partitura che mette a dura prova il Coro tanto nella solennità della scena del Trionfo, quanto - e soprattutto - nei momenti rarefatti, dai colori, profumi e atmosfere esotiche da “dietro le quinte” dell’Atto I, III e IV, stasera la compagine si fa “personaggio” che ruota intorno ad Anna Bolena, Maria Stuarda ed Elisabetta I: un personaggio ora discreto, ora perentorio, duttile, mutevole nell’accento e nel colore, sempre preciso e, vivaddio!, che costruisce l’articolazione musicale partendo dall’idiomaticità della singola parola: il belcanto ha le sua fondamenta nella parola cantata; e il Coro del San Carlo stasera ne ha di ben piantate.
Tutti eccellenti i personaggi secondari che, per appropriatezza stilistica, spessore vocale e organizzazione vocale, hanno contribuito all’ottima realizzazione del polittico musicali; nel plauso per tutti, segnaliamo Martina Belli, Smeton seducente per colore vocale brunito e figura; Sergio Vitale, signorile Lord Guglielmo Cecil (Maria Stuarda) e Duca di Nottingham (Roberto Devereux); Caterina Piva, impeccabile come Anna Kennedy (Maria Stuarda) e Sara, Duchessa di Nottingham (Roberto Devereux).
È un lungo diluvio di meritati applausi (intorno ai 10 minuti; ultimamente notiamo con piacere che il repertorio belcantistico a Napoli compie il sortilegio di inchiodare tutti al proprio posto, quasi inibendo la deprecabile corsa al primo taxi all’uscita) quello che saluta un’elettrizzante serata musicale e che decreta il trionfo personale per Sondra Radvanovsky; ma, in questa serata di frizzante energia musicale, ad essere applauditi calorosamente sono tutti gli artefici de Le tre regine.