L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L’astro nascente

di Lorenzo Cannistrà

Alexandre Kantorow, giovanissimo vincitore dell’ultima edizione del Concorso internazionale Čajkovskij, si esibisce nella Sala Verdi del Conservatorio con un bellissimo programma dedicato a Liszt, Schumann e Scriabin. Un talento eccezionale che approccia la tastiera in modo spettacolare eppure in qualche modo sfuggente

Milano, 15 febbraio 2022 - La Società del Quartetto di Milano è da sempre, insieme all’Accademia di Santa Cecilia, una delle società concertistiche più serie, prestigiose ed esclusive d’Italia. Una di quelle istituzioni che apre le porte solo a musicisti dotati di un quid pluris e che per il resto le tiene volentieri serrate.

Suscita dunque curiosità vedere in cartellone un pianista ancor giovanissimo (24 anni), per quanto fresco vincitore di un concorso tra i più importanti al mondo (il che, come purtroppo insegna la storia delle competizioni pianistiche, non vuol dire sempre che l’artista abbia qualcosa di speciale da esprimere).

Chi è allora Alexandre Kantorow? I dati biografici lasciano leggermente spiazzati: si tratta di un russo che si è formato in Francia o di un francese che è andato a Mosca a sbaragliare la concorrenza? E perchè viene indicato dalla stampa specializzata come il “nuovo zar” del pianoforte?

Facciamo un po’ di ordine. Figlio d’arte – il padre è il noto violinista/direttore Jean-Jacques Kantorow –, di famiglia russo-ebraica, ha studiato a Parigi con insegnanti francesi e russi. Nel 2019 ha vinto il Concorso internazionale Čajkovskij, incassando anche il Grand Prix, riconoscimento aggiuntivo ed eccezionale raramente dato dalle giurie al gold medalist (tra i premiati, in passato, Daniil Trifonov).

Al di là delle trovate di marketing e delle spoglie note biografiche, è illuminante il commento di Angelo Foletto dalle colonne di Repubblica: “È un riferimento tra i giovani pianisti francesi, una generazione di interpreti che sta portando avanti un’idea musicale e strumentale di approccio libero, ‘modernamente post-romantico’, ai brani affrontati”. E in questa generazione di pianisti francesi va annoverato in primis Lucas Debargue, amico di Kantorow, rivelazione della precedente edizione del “Čajkovskij”.

Insomma, ci si appresta a sentire questo giovane con un’attesa carica di aspettative. Già però prima del concerto Kantorow ha dato una bella stilettata al suo pubblico, compilando un programma esemplare dal punto di vista culturale, simbolico, musicale e, last but not least,anche di grande sagacia quanto ad impatto sul pubblico. E ciò è tanto più sorprendente se consideriamo che l’impaginato è interamente formato da brani ben noti a chi abbia in casa una discoteca anche solo discreta.

Il programma fa perno su Franz Liszt, che troviamo all’inizio, a metà, e alla fine del recital. Il Liszt meditativo e trascrittore della cantata di Bach Weinen, Klagen, Sorgen, Zagen S 179, fa da introibo al concerto, seguito dalla Sonata op. 11 di Schumann, uno dei punti più alti raggiunti dal magistero pianistico del genio di Zwikau, dove il fuoco di un linguaggio nuovo si mischia con la severità architettonica di un’autentica cattedrale pianistica. La seconda parte prosegue con il Sonetto 104 del Petrarca e con le atmosfere piene di significativi silenzi dell’ultimo Liszt di Abschied e La lugubre gondola. Il termometro del pubblico risale poi con lo Scriabin di Vers la flamme op. 72 (pezzo che tuttavia inizia con le medesime atmosfere spettrali de La lugubre gondola, e per questo collocarlo lì mi è sembrato doppiamente geniale). A questo punto il pubblico è ad un grado di cottura adeguato per concludere con quell’infernale caravanserraglio di emozioni che è Après une lecture de Dante.

Tanto di cappello al giovane “zar”, che mi pare assai determinato già nelle intenzioni.

Kantorow entra sul palco e si avvicina al pianoforte con una lunga falcata: è alto e magro, le gambe sono lunghe leve. Il viso è a metà tra il bravo ragazzo e una tormentata rockstar con il basso in mano e la maglietta ridotta ad un brandello bianco e sudaticcio. Si siede al pianoforte come se fosse un tavolo da lavoro, ma non rinuncia ad un ricorrente (scaramantico?) tocco sulla parte destra dello strumento prima di iniziare ogni pezzo. É vestito di nero, semplicemente, ma rivela una qual certa trascuratezza nel lasciare costantemente nudo l’avambraccio sinistro.

Ne viene fuori un ritratto non privo di sottili contraddizioni, il che ovviamente non fa che aumentare la curiosità.

Attacca Bach-Liszt con religiosa concentrazione, ma attenzione: al primo intensificarsi del discorso musicale, vien fuori un suono tonante e inaspettato, qualcosa di tellurico, che sale dai precordi e riempie la sala. Come ha fatto? Dato che il nostro giovane artista mette in bella vista uno degli avambracci, possiamo dire con certezza che non si tratta delle braccia da boscaiolo del leggendario Lazar Berman (notoriamente un omone che incuteva rispetto alla vista).

C’è a dire il vero qualcosa di misterioso nella tecnica di Kantorow. Il giovane pianista ha dita molto lunghe e affusolate, il che, lungi dal tradursi il più delle volte in un vero vantaggio, lo ha costretto ad elaborare una tecnica assai personale. Egli stesso ha affermato in un’intervista che imparare la tecnica è stata la cosa più difficile per via delle sue dita “deboli”. Si stenta in realtà a crederlo dopo il concerto di questa sera, in cui le sbavature sono state pochissime e l’impegno fisico quasi massacrante. Quel che si percepisce è comunque che il giovane francese ha uno stile in realtà poco pianistico, essendo più interessato ad evocare il suono, più che a mostrare come si produce.

La sonata di Schumann è stata suonata come un giovane brillante riesce a fare agli inizi della sua carriera, senza quindi un approfondimento poetico memorabile. Molti particolari tuttavia sono stati davvero interessanti, e tra questi la coda del Finale (e quindi dell’intera sonata). Si tratta di una manciata di battute in cui Schumann sembra iniziare pericolosamente qualcosa di nuovo, utilizzando uno stile preludiante che sembra non condurre da nessuna parte, fino alla inattesa brillante conclusione. Qui Kantorow coglie il significato musicale senza alcun disagio: tutto appare naturale, anche i voluti incespicamenti della scrittura schumanniana.

Il sonetto del Petrarca è invece l’unico pezzo in cui il nostro giovane “zar” sembra non avere le idee troppo chiare. Troviamo anche qui dinamiche originali e sorprendenti rapporti di forza nella linea melodica. Mi è sembrato tuttavia che sia mancato quel carattere implorante, quell’ansia viva che emana dal testo poetico, mirabilmente ripreso da Liszt, mentre gli occasionali virtuosismi sono apparsi un po’ appannati. Molto ben realizzati invece i successivi pezzi lisztiani, in cui Kantorow pare rivelare un malcelato amore per i recitativi, che, sebbene molto prolungati in questi brani, non sono mai soporiferi grazie ad una perfetta calibratura e un’altrettanto felice fusione tra “detto” e “suonato”.

Con Scriabin, come dicevamo, Kantorow dà una bella scossa al pubblico, e lo fa senza troppo penare (anche se ha dalla sua la giovane età: vedremo se saprà suonarlo come faceva Horowitz alla bellezza di 74 anni...). I ripetuti tremoli a mani alternate sono stati eseguiti con impressionante regolarità, così come tutto l’ebbro crescendo che caratterizza il pezzo.

Infine, la Dante Sonata. Qui ritorna, in tutta la sua misteriosa eziologia, il suono tonante che avevamo ascoltato all’inizio, moltiplicato per mille echi. È un Liszt suonato alla Liszt, impavidamente, con indubbio effetto, ed una impressionante massa sonora che però è perfettamente organizzata, e questo è, a mio parere, il dettaglio più memorabile del recital. Kantorow, anche nel parossismo delle sezioni più concitate, sa sempre dove sta andando; le pause a sorpresa e gli accelerando più marcati hanno una logica facilmente percepibile.

Due i bis, richiesti a gran voce dal soddisfatto uditorio: l’Oiseau de feu di Stravinskij nella trascrizione di Guido Agosti (di cui ha suonato solo la parte finale, lasciandoci tanto strabiliati dagli effetti sonori quanto rammaricati per non averla sentita interamente), e la Ballata op. 10 n. 2 di Brahms, suonata molto “alla Liszt”, e per questo forse un po’ meno riuscita.

Si è concluso così il concerto di questo nuovo astro nascente del pianismo mondiale. Non so quanto gli si addica il titolo di “zar”, e vedendo i suoi lineamenti fini, non sembra neanche un tipo così terribile: ma è proprio vero, e lui stesso lo ha ammesso, che quando suona, “qualcos’altro si impossessa di me”. Qualunque cosa sia, possiamo essergli grati.


 

 

 
 
 

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