L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Tutto Čajkovskij

di Roberta Pedrotti

Uno splendido programma monografico dedicato al compositore russo - vittima della società del suo tempo e per questo particolarmente attuale - dimostra gli ottimi risultati della collaborazione fra la Form, Orchestra filarmonica marchigiana, e il suo direttore principale Alessandro Bonato. Solista nel concerto per violino, Alexandra Tirsu.

JESI 1 aprile e FABRIANO 2 aprile 2022 - A Siena, un fantino deve saper adottare la giusta strategia sia che, per volere della Sorte, monti una “brenna” o un “bombolone” (vale a dire, un cavallo di minori o maggiori potenzialità). Al volante non è la stessa cosa avere una Ferrari o la Bianchina fantozziana, né è scontato che chi guida bene l'una se la cavi del pari con l'altra. Così è un po' con i direttori d'orchestra: c'è chi si è sempre mosso su podi lussuosi o chi si trova a far funzionare complessi meno affinati e non è detto quali sarebbero i risultati scambiando le posizioni. Poi, c'è chi, prima di trovarsi a montarlo, un cavallo lo ha conosciuto e allenato nel tempo, c'è chi un motore lo ha studiato e perfezionato; c'è chi con un'orchestra ha lavorato a fondo e in quasi tre anni di collaborazione ha consolidato ormai un'identità sonora, una coesione, una simbiosi artistica i cui frutti maturi si gustano in concerto. C'è una crescita comune, si vede e si sente, ed è questo, pensiamo, che indica la statura artistica e professionale di un direttore più di quel che può trasmette saltando da un podio all'altro in un girotondo internazionale.

Quando è stato nominato, dopo aver già intrapreso una proficua collaborazione, direttore principale della Form, orchestra filarmonica marchigiana, Alessandro Bonato aveva venticinque anni ed era il più giovane ad aver ricoperto tale carica in Italia. Ma, lo abbiamo visto nei fatti, non si è trattato di giovanilismo fine a se stesso. Una scommessa, forse, che però si è vinta con risultati ben consolidati, in primo luogo in un'apertura nel repertorio – finalmente Brahms, Šostakovič, Čajkovskij – che l'orchestra ha saputo rendere con un suono sempre più pieno, presente, duttile e riconoscibile.

La solidità professionale di questo nuovo corso si vede anche nella reattività di fronte agli imprevisti. Venerdì primo aprile, al debutto di questo programma tutto čajkovskijano, dopo nemmeno una manciata di battute del Concerto per violino, alla solista Alexandra Tirsu salta una corda. Presa alla sprovvista, istintivamente, scambia lo strumento con la spalla, Alessandro Cervo, non meno stupefatto nel trovarsi all'improvviso in mano un violino non suo. La cosa potrebbe funzionare se mancasse giusto una cadenza, ma abbiamo di fronte un intero concerto. In una frazione di secondo, Bonato dal podio ridistribuisce i violini ai legittimi proprietari e accompagna la solista nei camerini, la aiuta a cambiare la corda e le lascia qualche minuto per riprendere la concentrazione. Il pubblico, coinvolto, applaude e scambia perfino qualche battuta scherzosa con Cervo. Il concerto riparte e se Tirsu è comprensibilmente un po' tesa, tutto fila liscio con consensi calorosi già alla fine del primo movimento (non facciamo i bacchettoni: nell'Ottocento si usava, e data la situazione era più che giustificato!). L'aneddoto è colorito, ma racconta soprattutto quando all'imponderabile imprevedibile che è la sostanza umana della musica e del teatro si uniscono un affiatamento quasi telepatico, la collaborazione e la solida preparazione. E, se vogliamo, “fantasia, intuizione, decisione e velocità d'esecuzione”.

Senza colpo ferire, ci ritroviamo in una lettura accurata e profonda del concerto di Čajkovskij, il cui incipit sembra fatto di nulla, battute impalpabili e sospese che emergono nell'aria prima che il tempo prenda forma, come il destino e i primi accenti, netti e decisi. Già da subito ci immergiamo nella poetica del compositore e in questo bel programma monografico il legame profondo fra concerto e sinfonia è evidente, consequenziale. Tirsu, al debutto nella partitura, potrà prendere maggior confidenza con questo repertorio, ma la delicatezza un po' nervosa del suo suono (non a caso il bis è il frenetico Applemania di Igudesman) fa emergere il gioco dialettico che si riverbera in orchestra, là dove il senso di delicatezza si riverbera con altra espansione lirica e un sapiente gioco di pesi, rubati e accenti che evita ogni retorica compiaciuta puntando invece alla sincerità problematica dell'anima di Pëtr Il'ič. È così che l'affermazione del tema cantabile del primo movimento e il successivo imperioso contrasto in cui si innesta la cadenza solitaria del violino arriva a commuovere davvero e, soprattutto, a far pensare. È così che si dipanerà poi la tormentata Canzonetta e che si libererà, con una nobiltà interiore scevra da ogni facile effetto, l'Allegro vivacissimo così ben articolato nelle sue sensate variazioni dinamiche.

È così, soprattutto, che si arriverà al respiro della Quarta sinfonia, che mette in luce tutta la qualità sviluppata dall'orchestra con il suo direttore principale proprio perché la indirizza in una precisa visione poetica. Ne è un esempio il peculiare colore russo del secondo movimento, con una capacità di cantare legatissimo, morbido e avvolgente, ma quasi sospeso senza tempo, senonché in questa quiete irreale – quasi il fiume Lete, o Neva, vagheggiato da chi accarezza la dolce idea della morte – scintillano nitidissimi gli interventi dei soli svelando la struttura metrica in filigrana. Ne è esempio anche il pizzicato del terzo movimento, ben lungi dal meccanicismo di un tempo scandito dalle dita sulle corde, bensì musica densa, fisica, vere e proprie gocce di suono distillato pieno di calore e colore. Come già nel Concerto, i tempi estremi sono permeati da una nobile solennità che non sa di maniera, ma di sincera e profonda riflessione sull'esistenza, il desiderio, il destino. Infatti, è sotteso un tormento che tuttavia non intralcia, semmai arricchisce, il filo del discorso. È chiaro come il lavoro complessivo sul suono del direttore con la sua orchestra (e qui, si badi bene, non si parla di infallibilità del singolo: non si tratta di esibire un campionario tecnico solistico, ma di fare musica insieme) permetta un ben calibrato gioco di rubati, ponderato equilibrio fra libertà e rigore, accenti sgranati o sfumati e soffusi, tempi suadenti o scattanti, affermazioni assertive o ripiegamenti carezzevoli. Tutto sempre soppesato e dipanato con lucido buon gusto.

Un direttore può inanellare i podi delle più blasonate orchestre, quelle con il repertorio in tasca e una tecnica inaffondabile, o sgomitare per far quadrare i conti là dove non si può pretendere o sperare troppo. Un direttore può dimostrare il suo valore costruendo un percorso comune, un rapporto, una poetica, un'idea di suono e fraseggio con la “sua” orchestra. Questo è quello che emerge in questo programma čajkovskijano, coerente, significativo, suonato benissimo perché artisticamente sentito, artisticamente compiuto perché suonato benissimo. Sia a Jesi, sia a Fabriano il pubblico è in festa, i commenti nell'intervallo entusiastici da parte di chi – musicalmente avveduto – segue da anni opere e concerti in questi teatri. Teatri splendidi, val la pena di ribadire, tanto che dispiace che questi risultati non abbiano un'eco mediatica che anche l'occhio apprezzerebbe: dopo la meritevole iniziativa degli streaming Sounddelivery lo scorso anno, possibile che non escano filmati e servizi fotografici all'altezza di quel che sentiamo e della meraviglia estetica dei teatri marchigiani? Dato che la sostanze c'è, pensare un po' di più all'immagine non sarebbe un peccato.


 

 

 
 
 

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