L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La sfida dei Vespri

di Giuseppe Guggino

Inaugurata al Teatro Massimo di Palermo la nuova stagione nel trentennale delle stragi di mafia con Les vêpres siciliennes di Verdi in uno spettacolo controverso ma potentemente suggestivo affidato a Emma Dante. Omer Meir Wellber affronta il genere del grand-opéra senza troppa convinzione, rifuggendo la magniloquenza e tagliando qua e là.

Palermo, 20 gennaio 2022 - In tempo di covid è un bell’azzardo scegliere un grand-opéra come spettacolo d’apertura, ma il Massimo di Palermo non rinuncia ai programmati con largo anticipo Les vêpres siciliennes nella messinscena di Emma Dante, pensata a inaugurazione di una stagione d’opera dedicata alle vittime della mafia, nel trentennale delle stragi del 1992.

L’idea di fondo dello spettacolo è potente, oltre che di grandi potenzialità: rileggere i moti contro gli angioini del 1282 come una rivolta dei siciliani alle vessazioni mafiose. In questa prospettiva la regista palermitana ha gioco facile nel costruire una narrazione profondamente intrisa di “palermitudine”, costantemente sospesa fra lo splendore della fontana di Piazza Pretoria – evocata con sufficiente verosimiglianza nelle scene di Carmine Maringola – e la miseria dei rifiuti per strada, fra la speranza nell’affidarsi alla “Santuzza” Rosalia e la rassegnazione nei costumi a lutto dei siciliani, firmati da Vanessa Sannino. Nel gioco di citazioni e autocitazioni del proprio personalissimo linguaggio teatrale nulla manca all’appello: i pupi siciliani, le teste di moro in ceramica, gli “stigghiolari”, la ferinità femminile delle chiome che schizzano acqua; all’appello non manca neanche il coraggio nel ritrarre agli occhi degli amministratori locali presenti nel palco reale una città sopraffatta dai rifiuti. Manca invece la capacità di far teatro, perché se è efficace l’identificazione del fratello d’Hélène con Paolo Borsellino – resa esplicita portando in scena i gonfaloni con su ritratte le vittime delle stragi di mafia, che rende immediatamente intelligibile la rilettura drammaturgica – la conseguente declinazione dell’idea di fondo nella delineazione psicologica e scenica dei personaggi avviene discontinuamente, con una recitazione non sempre calzante e sinergica; avrà pur pesato il covid nella realizzazione dello spettacolo, ma si ha comunque la netta sensazione che, pur fra gli efficaci movimenti scenici di Sandro Maria Campagna e le non meno calzanti coreografie di Manuela Lo Sicco affidate a pochi elementi del Ballo del Massimo e alla Compagnia Sud Occidentale, nella sua costruzione sia mancata quella convinzione collettiva che è essenziale e ineludibile a riletture dalla cifra identitaria tanto caratterizzante. Rimane l’innegabile poesia di alcune evocazioni simboliche: la barca “Rosalia” sospesa a mezz’aria, la “Santuzza” di cui s’è detto, ma anche l’interpunzione durante tutto lo spettacolo delle reti per la mattanza dei tonni, che si spiega al termine del quinto atto, come soluzione teatrale d’effetto per lo sterminio dei mafiosi.

La chiave molto poco grandoperistica della parte visiva impone il dover fare i conti anche con il testo musicale. Allora ben venga l’idea di smontare il divertissement fra i vari atti, male invece ridurlo ad una striminzita selezione. Cassato di peso l’Inverno, parte dell’Autunno – trascritto per trio da strada di clarinetto, fisarmonica e contrabbasso – transita a conclusione del primo atto, mentre il solo Andante della Primavera precede la Tarantella del secondo atto; infine un’Estate in versione abrégé introduce maldestramente il finale del terzo atto. Scelte musicali poco convincenti che si assommano a vari tagli puntuali (davvero inspiegabile col risparmio di tempo aver espunto quella ventina di battute con cui l’orchestra commenta il furore procurato in Hélène dalla sortita del tiranno Monfort al primo atto), eliminazioni di ripetizioni nelle strette, del Chœur d’apertura del quinto atto e quello – più giustificabile – della Mélodie d’Henri che seguirebbe il Bolero. E dopo una splendida ouverture Omer Meir Wellber sul podio pare perdere quota, rifuggendo ogni magniloquenza e districandosi fra pochi colori e agogiche sovente forsennate, tali da mettere in affanno tanto i solisti quanto il Coro preparato da Ciro Visco. Peccato, perché l’Orchestra suona con smalto (con una menzione particolare per il clarinetto solista nella reliquata Primavera) e il Coro non demerita per coesione.

Viene poi la spinosa questione del quartetto di protagonisti, quanto mai eterogeneo negli esiti, su cui non fatica a svettare il gagliardo Guy de Monfort di Mattia Olivieri, capace di rendere la filiazione dal Donizetti francese di questa scrittura baritonale, non immemore di un notevole Alphonse IX di qualche anno addietro al Massimo palermitano. Selene Zanetti lascia presagire ottime potenzialità di soprano lirico dalla bella pasta timbrica e buon legato, affetto da un eccessivo vibrato in acuto, che mostra qualche limite di omogeneità e precisione se applicato ad una scrittura di soprano drammatico distribuita su tre ottave quale è quella onerosissima di Hélène. Analogo il problema di fondo nell’Henri di Leonardo Caimi, che barcamena però con assai minore destrezza rispetto sua partner in scena, risultando costantemente più deficitario che sottodimensionato. Infine sul Procida di Erwin Schrott, giunto in emergenza alla Prima, deve segnalarsi l’ampia voce calda tipicamente latina, mentre nelle repliche, con il rientro in produzione dell’annunciato Luca Tittoto, guarito dal covid, non sarà difficile attendersi in aggiunta alla pregevole ampiezza di suono anche l’adesione al dettato ritmico e melodico verdiano.

A completare la distribuzione in palcoscenico l’incisiva Carlotta Vichi (Ninetta) e il partecipe Francesco Pittari (Danieli) mentre fra i francesi (alias mafiosi) sono da elencare Matteo Mezzaro (Thibault), Pietro Luppina (Mainfroid), Alessio Verna (Robert), Ugo Guagliardo (Béthune) e Gabriele Sagona (Vaudemont).

A fine del primo atto s’è temuto il peggio per Emma Dante ma poi la carica polemica dello spettacolo stemperata nel suo sviluppo ha condotto la sfida – in parte vinta, in parte mancata – al successo pieno agli applausi finali.


 

 

 
 
 

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