L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Un matrimonio (poco) nobile

di Luca Fialdini

Al Teatro alla Scala la prima del Matrimonio segreto di Cimarosa viene salutata con lunghi applausi, ma allestimento e direzione suscitano qualche perplessità

MILANO 5 settembre 2022 – La capacità di mietere successi evidentemente appartiene al DNA del Matrimonio segreto di Domenico Cimarosa (basti pensare all’esito incredibile della prima rappresentazione: replica integrale dell’opera!) e il debutto della nuova produzione del Teatro alla Scala incassa senza dubbio un bel successo di pubblico. Il carattere leggero del titolo, le frivolezze e le follie dell’allestimento, il buon risultato del cast e dell’orchestra ambedue provenienti dall’Accademia scaligera hanno saputo suscitare l’entusiasmo del folto pubblico. Beninteso, l’entusiasmo a cuor leggero di chi si lascia catturare da una commedia ingenua e spiritosa, e quindi tende a chiudere un occhio su alcuni scivoloni.

La regia di Irina Brook si avvale di scene e costumi a firma di Patrick Kinmonth per creare un pastiche di rilegature ottocentesche e abiti buffamente discutibili, coralli e varie stravaganze, il tutto efficacemente completato dal bel disegno luci di Marco Filibeck. L’aspetto eminentemente comico è preminente nell’opera più celebre di Cimarosa – per non dire la sua raison d'être – e la regia di Brook lo sottolinea efficacemente, ma presenta al contempo alcune debolezze: oltre a non aggiungere nulla a un titolo che non fa della profondità il suo vessillo, qua e là si lascia andare a qualche trovata di dubbio gusto come le innumerevoli trovate per strappare la risata a tutti i costi (pantaloni calati, gesti buffi, improbabili acrobazie con la Union Jack e balletti per lo meno evitabili) o le gag a sfondo erotico decisamente fuori luogo in un’operina che si attiene alla linea casta e pura dettata da Leopoldo II. L’insistenza su questi stratagemmi fornisce l’impressione di poca fiducia da parte della regista nei propri mezzi e di voler ripiegare su questi per esser certa che qualcuno tra il pubblico riderà comunque: obiettivo raggiunto, chapeau, però l’impianto generale risulta debole.

La lettura di Ottavio Dantone lascia perplessi: da un lato cesella finemente ogni frase, ricava dall’orchestra colori sfavillanti, riesce in ogni momento a garantire un’eccellente tenuta drammaturgica, dall’altra riprende gli orrendi tagli di tradizione, giustizia quasi tutte le appoggiature, talvolta prende tempi troppo veloci e inspiegabilmente inserisce una grancassa in organico. Andando in ordine inverso, sulla grancassa non c’è discussione: l’effetto è pessimo, nel manoscritto non è indicata, nelle edizioni a stampa non è riportata salvo qualche raro caso come la discutibile edizione Carisch degli anni ’50, quindi la natura della sua presenza in buca resta un mistero; la scelta dei tempi è sicuramente una questione complessa ma dei numeri come "Pria che spunti in ciel l’aurora" e "Deh, ti conforta, o cara" per la loro stessa natura hanno bisogno di un metronomo molto più lento di quello scelto da Dantone (per la cronaca si tratta di un Andante sostenuto e un Largo), ma si hanno anche casi in cui i tempi individuati siano scomodi per il canto come nel caso del duetto iniziale "Cara, non dubitar", in cui il tenore ha avuto difficoltà a rimanere in tempo proprio per l’errata decisione del direttore. La questione appoggiature è un mistero, considerando anche la specializzazione di Dantone, ma è ancor più misteriosa la scelta di replicare i tagli tradizionali: alla Scala un’idea del genere non dovrebbe nemmeno esistere, ma trattandosi di una produzione legata all’Accademia si può comprendere l’intenzione di sfoltire un po’ il quantitativo dei numeri musicali, ma perseverare in quella pratica che elimina le ripetizioni variate o addirittura taglia a metà interi discorsi per arrivare alla cadenza è semplicemente una sciocchezza, oltre che di effetto estremamente cattivo. Già nella sua edizione del ’77 Barenboim aveva riaperto tutti i tagli e reinserito tutti i numeri falciati dalla tradizione, e non si sta parlando di uno specialista del repertorio classico-barocco. Per converso, l’orchestra dell’Accademia del Teatro alla Scala si comporta molto bene: riesce egregiamente a produrre i colori e le intenzioni chiesti dal direttore, dimostra una buona compattezza e – al netto di qualche perturbazione nel settore trombe – anche un’ottima intonazione.

Il cast fornisce la migliore prova nei numerosi assiemi e nei concertati, dove le debolezze individuali non emergono. Il veterano della compagnia e docente dell'Accademia Pietro Spagnoli, se non possiede uno strumento di particolare potenza, vanta doti attoriali che gli consentono una fantastica naturalezza in scena anche nei momenti più buffi e surreali, ben gestiti grazie a un singolare equilibrio di preparazione e capacità d’improvvisazione. Venendo al gruppo degli allievi, Mara Gaudenzi è una Fidalma solida, molto apprezzabile per il timbro omogeneo e l’efficace recitazione, con una caratterizzazione interessante e di insolito spessore; Paolo Antonio Nevi, che curiosamente è chiamato a interpretare proprio il ruolo di Paolino, si dimostra un valido interprete per questo repertorio dotato di un timbro chiaro e buona agilità, quel che manca è più carattere.

Il più problematico è senza dubbio il Conte Robinson: è evidente che Sung-Hwan Damien Park ce la metta davvero tutta, ma non è ancora riuscito a scollarsi quelle rigidità di dizione e recitazione tipiche dei cantanti provenienti dall’Estremo Oriente e purtroppo anche la vocalità non è di particolare interesse. Al netto di questo, a lui l’onore delle armi per aver dimostrato di aver scoccato tutte le frecce al proprio arco per fare del proprio meglio.

Ottima Francesca Pia Vitale nei panni di Elisetta, nonostante tutte le bizzarrie di vestiario e gestualità fornisce un’ottima prova e brilla nell’aria "Se son vendicata"; Vitale si dimostra interprete valida anche in quello che fondamentalmente è un ruolo bidimensionale, meriterebbe di essere ascoltata in situazioni più interessanti

Greta Doveri è una lieta sorpresa: a parte qualche acerbità la recitazione è disinvolta e dal buon piglio, mentre lo strumento vocale si presenta molto interessante in particolare nelle agilità e nelle ornamentazioni (a titolo di esempio basti pensare alle terzine verso la fine di "Le faccio un inchino") e il timbro, oltre a essere eccellente per il repertorio del Settecento, le consente di essere perfettamente riconoscibile anche nei concertati. Una voce che si spera potremo udire nuovamente in Scala.

In sintesi questa nuova produzione del Piermarini ha senz’altro dei buoni punti di forza, ma nel complesso risulta talvolta approssimativa e poco curata. La possibilità di una realizzazione migliore è proprio dietro l’angolo, mancano solo gli ultimi passi.


 

 

 
 
 

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