L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Fantasmagorie barocche e stupori queer

di Valentina Anzani

Acclamatissimo il nuovo allestimento di Alessandro nell’Indie in scena al Bayreuth Baroque Festival

Bayreuth, 11 settembre 2022 – Ormai alla sua terza edizione, dopo i primi due anni “in sordina” a causa delle limitazioni sanitarie imposte dalla pandemia, finalmente il Bayreuth Baroque Festival si esprime nel suo pieno splendore. Due settimane di spettacoli in varie sedi di Bayreuth, cittadina bavarese nota principalmente per l’annuale Festival estivo dedicato a Wagner, ma che oltre al Festspielhaus possiede anche una meravigliosa sala barocca: il Teatro dei Margravi. Edificato nel 1745 ad opera di Giuseppe Galli da Bibiena, è un gioiello imperdibile anche solo per una visita, ma che nell’ospitare concerti e produzioni operistiche è capace di far fare allo spettatore un vero e proprio salto nel tempo.

Produzione principale del Festival è stata la prima esecuzione in tempi moderni di Alessandro nell’Indie, dramma per musica allestito per la prima volta nel 1730 a Roma da Leonardo Vinci su libretto di Metastasio. La produzione ha voluto riproporre sulla scena un cast tutto maschile, proprio come era stato nella Roma papalina, che non voleva donne sul palcoscenico e che quindi prevedeva castrati in tutte le parti acute.

L’illusione era allora come oggi totale: voci acute unite in un’operazione sottilissima, che accontenta il pubblico neofita e quello esperto del barocco.

La complessissima e stupefacente regia di Max Emanuel Cencic ci porta in un palazzo inglese dal sapore di Bridgerton, la casa in cui, una sera, un principe organizza un divertimento e chiama dei comici cantanti per mettere in scena un dramma. Si ripropone quel gioco metateatrale che siamo abituati a trovare nell’Ariadne auf Naxos di Strauss, un gioco cui egli stesso partecipa, in perfetta aderenza alla prassi dei dilettanti e in un gioco di cui è lui a stabilire il finale: è il deus ex machina che vuole ritirarsi a nanna, paga tutti e buonanotte.

Il ritmo della narrazione è serratissimo, e condito da un’ironia totalizzante (a volte quasi invadente) di uno stampo dichiaratamente queer, capace di attraversare una molteplicità di registri ben giustapposti secondo la cartesiana teoria degli affetti. Allo stesso tempo propone una riflessione sui più attuali temi legati agli imperialismi, mettendo in scena un occidente annoiato e conquistatore in cerca di distrazione, un oriente (l’India) sognato e mitizzato così come nell’immaginario distorto di un colonizzatore.

I virtuosismi vocali, le ornamentazioni estemporanee, le linee melodiche intrecciate trovano perfetta aderenza nelle scene ricche e mobili (di Domenico Franchi), nelle coreografie sovrabbondanti e bollywoodiane (di Simon Rudra), nei costumi sfavillanti oltreché ricercatissimi e preziosi (a cura di Giuseppe Palella). In questi ultimi si denota un’attenzione minuziosa al contesto, al personaggio e al momento “politico” in cui questo agisce: è evidente che Palella si sia ben informato su figurini teatrali d’opera seria di metà settecento e che allo stesso tempo abbia lavorato su fogge e colori, adattandoli ad ogni momento dell’opera. Così Cleofide, regina d’India, veste inizialmente panni spiccatamente indiani, i quali si “occidentalizzano” tanto più si stringono i rapporti con il conquistatore straniero.

La voce di Bruno de Sa è speciale, rotonda, brillante e forse vedere lui sulla scena è ad oggi quanto più vicino a quello che possiamo immaginare sia stato assistere all’esibizione di un castrato, forse proprio quel “Farfallino” che fu il primo interprete di Cleofide: specializzato in ruoli en travesti, sulla scena interpretava quasi esclusivamente personaggi femminili. Quanto a Bruno de Sá, la sua voce da soprano naturale (non canta in falsetto, come i colleghi controtenori), il suo portamento elegante, la sua credibilità come la donna regale e sensuale che interpreta in scena, lasciano senza parole. Non fa della precisione il suo principale merito, né l’aderenza stilistica alla prassi storicamente informata, ma anzi di questo suo stile personale fa la propria cifra espressiva peculiare e riconoscibile, come era d’altronde per i veri divi del belcanto.

Franco Fagioli è espertissimo nei ruoli scritti per Carestini, così come lo era stato nell’arcinoto Artaserse: anch’esso prodotto da Parnassus nel 2007, è opera gemella di questo Alessandro perché rappresentata per la prima volta nello stesso anno (1730) e con lo stesso cast. Il tempo ha forse un poco limato lo smalto del suo timbro, ma rimane sorprendente la sua capacità di sgranare tutte le semicrome di un passaggio ornato in maniera impeccabile, oppure il suo trasporto nelle arie patetiche.

Piace il resto del cast, così come la {Oh!}Orkiestra diretta da Martyna Pastuszka. Del Timagene di Nicholas Tamagna ricordiamo l’effetto comico e caratterizzante dato da un voluto difetto di pronuncia delle sibilanti; convincono Jake Arditti nei panni della seconda donna Erissena e Maayan Licht in quelli del conquistatore/anfitrione Alessandro; unico tenore, Stefan Sbonnik era Gandarte, che piace negli acuti e nei cambi di registro uniformi.

Momento indimenticabile resta il Finale Primo: nel dettato di Metastasio/Vinci i due amanti Cleofide e Poro sono in crisi e si rinfacciano argomenti di precedenti litigi, l’uno accusandola di non essergli fedele, l’altra di non aver fiducia in lei. Il duetto è occasione per De Sá e Fagioli di lanciarsi in variazioni inaspettate che travalicano le epoche e lasciano con il fiato sospeso, interpellando Verdi e Mozart. La regina, creduta dall’amato di facili costumi, incastona nelle proprie variazioni la cadenza da “Sempre libera” (dalla Traviata) e le puntature dall’iconica aria della Regina della Notte (dalla Zauberflöte), mentre lo sfiduciato amante la accusa con parole e melodia di “La donna è mobile qual piuma al vento” (dal Rigoletto). Attorno a loro si creano fazioni di sostenitori e detrattori, configurando la scena come una vera e propria sfida canora come quelle narrate sui vari Farinelli e Caffarelli o Bernacchi a Napoli e Bologna, o su Faustina e Cuzzoni a Londra. Diventa un momento che ritrae la quintessenza del barocco: lo stupore, l’eccesso, la meraviglia stanno tutte in quel finale!

Un plauso speciale va a Max Emanuel Cencic, direttore artistico del festival e ideatore della regia, che la sera del 10 si è esibito in un godevole concerto di arie scritte per Carestini a celebrare 40 anni di palcoscenico.


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