L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La seduzione dell'immagine

di Roberta Pedrotti

Mentre si aprono le celebrazioni per i cento anni dalla nascita di Franco Zeffirelli, al Maggio Musicale Fiorentino va in scena il Doktor Faust di Busoni in un allestimento in cui predominano le suggestioni visive nello stile di Davide Livermore, ma si apprezzano anche le ottime prove di Olga Bezsmertna e Joseph Dahdah.

FIRENZE, 11 febbraio 2023 - L'11 febbraio si aprono al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino le celebrazioni del centenario della nascita di Franco Zeffirelli, che avranno il loro culmine nella giornata successiva con una serie di iniziative e il passaggio delle frecce tricolori. E per castelli in aria è il titolo della giornata di studi nel foyer di galleria e, se il pomeriggio con i colleghi c'è l'impegno dell'Assemblea dell'Associazione nazionale critici musicali, almeno si può assistere alla prima sessione mattutina presieduta da Angelo Foletto con interventi di Alexander Pereira, Pippo Zeffirelli, della vicesindaca Alessia Bettini, di Caterina d'Amico (sulla fiorentinità e la formazione dell'estetica), Luciano Alberti e Cecilia Gasdia (questi ultimi a rievocare la storica Traviata diretta da Carlos Kleiber). Poi, domenica, nelle ultime ore in riva all'Arno, sotto il rombo dell'aviazione acrobatica, solletica l'idea di evitare il calendario ufficiale e ragionare altrimenti sui punti sollevati da d'Amico. Visitare Palazzo Pitti, per esempio, significa anche trovarsi a riflettere sul potere dell'estetica e sul rapporto con il passato e il teatro come riparazione, instrumentum regni, rappresentazione ideale. Non è forse splendidamente teatrale – e funzionale all'immagine che di sé creano un governo e una società – la prospettiva perfetta del palazzo e del giardino di Boboli, al pari dei parchi di Versailles, Caserta o Schönbrunn? Non è una dichiarazione d'intenti anche politica la ricchezza delle vesti di Eleonora di Toledo ritratta dal Bronzino ed esposta in un allestimento a lei dedicato? Non è, perfino, una forma di consolazione e di attaccamento alla vita quella pittura pulita nelle linee e sgargiante nei colori di Rudolf Levy (1875-1944) l'artista in perenne esilio e vittima della Shoah nei cui dipinti traspare costante l'anelito alla serenità e alla fuga da un dolore inesorabile? E vedere, fra soggetti quotidiani o scoperte esotiche, classiche bellezze o veri e propri allestimenti pittorici della morte di Maria Stuarda, della Battaglia di Legnano, dei Due Foscari, nonché il ritratto di Rossini di D'Ancona e il busto di Verdi di Gemito non ci aiuta a capire il rapporto stretto di uno Zeffirelli con il melodramma e, soprattutto, con una certa concezione visiva del melodramma? Si intuisce come e perché il bimbo fiorentino senza padre, il giovanotto che vede le ferite della guerra sia cresciuto nel culto dell'ingegno rinascimentale e di una composizione scenica che riportasse equilibrio e armonia.

Un altro spunto forse fortuito capita nell'accostamento fra l'omaggio a Zeffirelli e le recite del Doktor Faust di Busoni, affidate per la regia a Davide Livermore, vale a dire un artista senz'altro diversissimo dal fiorentino, ma che condivide il predominio della dimensione puramente estetica, dell'immagine che inonda e informa la scena. L'inventiva si esprime in maniera spesso barocca, per ricchezza di mezzi ed elementi, ma codificata in un ordine ben riconoscibile. Da qui anche il rischio di autoreferenzialità e cliché.

Ci fa pensare a tutto questo, Davide Livermore, mentre associa la parabola di Faust – che Busoni sintetizza e desume da Goethe e Marlowe, ma soprattutto dalla tradizione dei Puppenspiele – alla figura stessa dell'autore, al suo rovello creativo che di fatto lo sdoppia e moltiplica, lo riflette nel pedante assistente e futuro rettore Wagner, nei demoniaci studenti tentatori e i quelli semplicemente, banalmente polemici, in un Mephistopheles che altro non è che una piega seminascosta della sua anima. E i prodigi del mago Faust alla corte di Parma sono gli effetti di un concerto pianistico di Ferruccio Busoni, da cui scaturiscono turbamenti erotici incarnati dall'apparizione di un satiro, o, meglio, di Pan: simbolo della natura, dell'istinto, del senso che il cristianesimo ha poi associato, nell'iconografia caprina, al demonio. I collaboratori abituali Giò Forma (scene) e D-Wok (video) con le luci di Fiammetta Baldiserri e i costumi di Mariana Fracasso organizzano questa materia con la cifra inconfondibile della “squadra Livermore”: abiti anni '20, uno schermo con la prospettiva lunghissima di una sala che si apre sul cielo e assume di volta in volta sembianze diverse, nuda o affollata, gelida o infuocata, chiusa o aperta sull'infinito. E, per quel che concerne la recitazione, l'amore per gesti meccanici, ossessivi, coreografie stranianti. L'idea c'è, ma tende a compiacersi di sé stessa; alcuni effetti sono azzeccati e realizzati ad arte, altri sanno un po' di ridondanza e déjà vu. Prendere (magari a piccole dosi) o lasciare, signore e signori: questo è Livermore.

Ed è un Livermore per di più alle prese con una materia assai insidiosa, perché da un lato si tratta di confrontarsi con uno dei più grandi miti della civiltà occidentale, con tutta la sua portata anche letteraria, dall'altro, però, parliamo della tormentata rivisitazione busoniana, per certi versi suggestiva, ma non sempre persuasiva. Questo riguarda anche la musica, in cui si riflette il medesimo rovello creativo, fatto di tentazioni e ambizioni le più disparate, che vanno dal fascino proibito della melodia all'italiana a quello erudito del contrappunto, dalla ricerca di un sofisticato respiro sinfonico alla violenza del declamato drammatico o grottesco, ancor più complicato dalla morte di Busoni che a 58 anni ha lasciato incompiuto il Doktor Faust. Esattamente come nell'opera il sacrificio dell'eponimo è rinascita per la sua creatura.

Per il debutto assoluto il completamento fu curato dall'allievo Philipp Jarnach nel 1925 e per questa versione si opta oggi, per il ritorno dopo cinquantanove anni e finalmente nell'originale tedesco sulle scene fiorentine che ne videro la prima italiana nel 1942. Si affida, poi, a Cornelius Meister il compito di sbrigliare la matassa: complicata, eterogenea, esigente, a forte rischio di soddisfazioni impari all'impegno. Al maestro va riconosciuta la ricerca di una coerenza di fondo, la cura delle pagine orchestrali – che sono anche i momenti migliori della partitura – e la tensione verso un respiro omogeneo e omnicomprensivo. Sembra la strada più sicura, ma non è esente da rischi sulla scia sdrucciolevole del tardo romanticismo in cui Mahler ascolta Mascagni: l'antidoto agli squilibri potrebbe essere una lama lucida e affilata, ma anche diventare una certa mancanza di mordente se la resa acustica non è smagliante – e a dispetto della qualità ben nota dei complessi del Maggio (orchestra e coro preparato da Lorenzo Fratini), la sala grande non brilla per nitore e generosità con le varie sezioni.

Combatte con i capricci mangia-armonici del teatro anche il cast, in cui spiccano le prove di Olga Bezsmertna e Joseph Dahdah. La duchessa di Parma, la sua nobiltà che via via cede al turbamento e alla seduzione e diventa la perorazione accorata della donna perduta e della madre abbandonata trovano esaltazione nel legato del soprano ucraino, nel suo dominio dell'intera gamma dinamica e nella sua vibrazione interna. La preghiera del soldato (equivalente di Valentin, fratello di Gretchen) ha nel tenore libanese un interprete sincero nel porgere, rifinito nella mezzavoce, sempre a fuoco nell'emissione e levigato nel timbro, qualità che mette in luce anche nei panni del Duca. A loro si devono le migliori soddisfazioni sul palcoscenico, dove invece non convincono fino in fondo il Faust di Dietrich Henschel e il Mephistopheles di Daniel Brenna, che scontano qualche sforzo e affaticamento di troppo nelle asperità delle rispettive parti. Attendibile il resto della foltissima locandina; Wilhelm Schwinghammer, Florian Stern, Martin Piskorski, Marian Pop, Lukasz Konieczny, Dominic Barberi, Marcell Bakonyi, Zachary Wilson, Franz Gürtelschmied, Ewandro Stenzowski, Mariia Kokareva, Olha Smokolina, Aleksandra Meteleva.

Alla fine, però, la soddisfazione maggiore è che la sala, nel tardo pomeriggio di sabato, sia popolata in misura confortante, perfino sorprendente per un titolo come questo. È bello constatare che sabato 12 febbraio non sono stati pochi a pensare valesse la pena di cogliere l'occasione per assistere a un'opera che, soprattutto in Italia, non si vede tutti i giorni.


 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.