L’Ape musicale

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Fêtons la jeunesse!

di Fabiana Crepaldi

L'opera di Gounod per la prima volta nella sala della Bastille riscuote un grandissimo successo grazie a una bella produzione che ha visto protagonisti Elsa Dreisig e Benjamin Bernheim.

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PARIGI, 12 luglio - Sorprendentemente, lo spettacolo che ho visto il 12 luglio a Parigi con una coppia protagonista da sogno è stata la prima dell'opera Roméo et Juliette di Charles Gounod all'Opéra Bastille. Infatti, l'ultima volta che l'Opéra di Parigi ha messo in scena l'opera - nell'affascinante e storico Palais Garnier, con Alfredo Kraus nel ruolo di Roméo - è stato nel dicembre 1985, e la Bastille è stata inaugurata solo nel 1989. All'epoca, la parigina Elsa Dreisig, la Giulietta della Bastille, non era ancora nata; Benjamin Bernheim, Roméo, anch'egli parigino, era ancora nella culla!

Questo non significa, ovviamente, che l'opera di Gounod fosse assente da Parigi in questi anni. Al contrario: l'ultima produzione in città è stata piuttosto recente, nel dicembre 2021, all'Opéra-Comique. In effetti, la storica Salle Favart è strettamente legata all'opera. Sebbene sia stata presentata per la prima volta nel 1867 al Théâtre-Lyrique, all'epoca concorrente dell'Opéra-Comique e dell'Opéra de Paris, fu trasferita all'Opéra-Comique nel 1873 dopo la scomparsa di quel teatro - e fu la prima opera a infrangere due delle regole principali della casa: non ci sono dialoghi parlati e il finale dell'opera è tragico. L'opera fu presentata all'Opéra solo nel 1888. Le prime all'Opéra-Comique e all'Opéra Garnier, ciascuna con le proprie caratteristiche specifiche in termini di orchestra, spazio e solisti, rappresentarono nuove edizioni della partitura. Quella del 1888, realizzata dallo stesso Gounod e comprendente il balletto, è quella che viene comunemente eseguita oggi.

Quando pensiamo al tragico amore della famosa coppia di Verona, pensiamo immediatamente a William Shakespeare. A differenza dell'opera I Capuleti e i Montecchi di Bellini e di altri adattamenti italiani dell'inizio del XIX secolo, Jules Barbier e Michel Carré si sono ispirati direttamente a al dramma inglese per scrivere il libretto. Inoltre, hanno conservato la struttura in cinque atti caratteristica del teatro shakespeariano.

Le origini della coppia suicida, tuttavia, si trovano nell'amore proibito tra Piramo e Tisbe in Ovidio. Inoltre, secondo la critica teatrale brasiliana Barbara Heliodora, specialista di Shakespeare, nell'introduzione alla sua traduzione portoghese di Romeo e Giulietta, "nel III secolo, in una storia greca, per la prima volta, una donna ricorre a una pozione che simula la morte per sfuggire a un secondo matrimonio con il marito vivente, ma il tema diventa veramente popolare durante il Rinascimento; nel 1476, nel Novellino di Masuccio, il veleno è già somministrato da un fratello".

La storia iniziò a prendere la forma che conosciamo oggi nel 1530, con l'italiano Luigi da Porto, quando apparvero sulla scena i Cappelleti (poi Capuleti) e i Montecchi, che avevano già popolato il capitolo VI del Purgatorio nella Divina Commedia di Dante Alighieri. Da Porto, apparentemente più preoccupato dalle  avventure amorose che da questioni politiche o sociali, sottolinea tuttavia che il conflitto tra le famiglie era dovuto al fatto che i Cappelleti erano guelfi, sostenitori del Papa, e i Montecchi erano ghibellini, difensori dei poteri del Sacro Romano Impero. Poco più di vent'anni dopo da Porto, lo scrittore Matteo Bandello, anch'egli italiano, pubblicò la sua versione della storia per mettere in guardia i giovani dai pericoli della passione. Nel 1562, l'opera di Bandello fu tradotta in inglese come poema da Arthur Brooke: The Tragicall Historye of Romeus and Juliet. Quest'opera è la fonte principale del famoso dramma di Shakespeare.

Brooke segue la stessa linea di Bandello: nella prefazione afferma che la sua opera si presta a incoraggiare gli uomini a evitare gli "affetti sciocchi", a trattenersi dai piaceri della carne. Brooke si rivolge al "buon" lettore, a cui la tragedia è destinata: "per descriverti una coppia di infelici amanti, che si sono fatti schiavi di un desiderio disonesto, disprezzando l'autorità e i consigli dei genitori e degli amici, dandosi come principali consiglieri pettegoli ubriachi e fratelli superstiziosi (...), affrettando così la più infelice delle morti".

Il tocco di innovazione e di ingegno di Shakespeare non sta quindi nella creazione della trama, ma nel modo in cui l'ha prevista, nel modo in cui l'ha raccontata e strutturata, nel significato che le ha dato. Shakespeare non si preoccupa di condannare i suoi giovani eroi o di educare qualcuno contro le passioni. Come sempre, è più interessato al funzionamento della società. L'amore tra Romeo e Giulietta è contrapposto all'odio che regna tra le rispettive famiglie. È questo odio, questo conflitto, questo disordine la causa delle tragiche morti, non le passioni.

In Shakespeare, c'è sempre disordine sociale e antagonismo tra due gruppi. In Romeo e Giulietta, questi due fattori si riflettono nel conflitto tra le due famiglie - e nell'opera il motivo di questo conflitto non viene nemmeno menzionato, non importa: ciò che conta è che la discordia è qualcosa che provoca gravi disordini sociali, divisioni, animosità, e costituisce una chiara disobbedienza all'autorità del Duca. In questo senso, è un'opera che parla alla nostra società, le cui divisioni e conflitti sono sempre più accentuati e alimentati dai social media.

Nell'opera di Gounod è chiaro che sia questo antagonismo, questo disordine sociale, a dare origine alla tragedia, e anche la disobbedienza evidente all'autorità del Duca venga messa in luce, sebbene non così tanto come nell'opera di Shakespeare. Alla fine del dramma, una volta consumata la tragedia, il Duca riappare, rimprovera le famiglie e, a costo della vita dei giovani, si riesce a riportare la pace. Alla fine dell'opera, la lezione viene impartita, ma non si raggiunge un accordo di pace, né c'è un rimprovero così categorico dell'autorità nei confronti dei genitori nobili e insensibili - che non sarebbe stato ben accolto dalla società dell'epoca di Gounod.

Altre caratteristiche delle tragedie shakespeariane sono già presenti in quest'opera che, secondo gli specialisti, deve essere stata creata all'inizio della fase lirica dell'autore, tra il 1595 e il 1597: il comportamento e le decisioni dei personaggi portano alla tragedia; i sentimenti dell'eroe tragico sono estremi ed esagerati; un evento casuale, un incidente, contribuisce a peggiorare le cose; una decisione sbagliata, un errore, porta anch'esso alla tragedia. È facile individuare tutti questi elementi in Romeo e Giulietta. Romeo è un tipo malinconico che non riesce a controllare le sue passioni. Alcuni episodi presenti nel testo teatrale sono stati eliminati dall'opera: a causa di una sospetta pestilenza, il frate incaricato di inviare la lettera a Romeo, che lo avvertiva della falsa morte di Giulietta, non arriva a Mantova - nell'opera non si sa perché la lettera non arriva; per rimediare alla profonda tristezza di Giulietta, presumibilmente causata dalla morte di Tebaldo, Capuleti decide di far sposare la figlia - nell'opera, questo è l'ultimo desiderio di Tebaldo, che aveva visto Giulietta con Romeo, il che rende la decisione meno insolita.

Un altro punto molto importante in Roméo et Juliette è il rapporto tra giorno e notte, sole e luna. Come dice Barbara Heliodora: "L'amore e la giovinezza sono luce; il dolore e la tristezza sono tenebre, sono il sole che tramonta o non vuole sorgere". C'è l'immagine del sole che splende, delle stelle, della luce della luna, delle candele, delle torce, dei rapidi lampi; c'è l'immagine del buio che viene, delle nuvole, dell'ombra, della notte. Ma è tutto molto complesso, perché i grandi momenti di felicità (l'incontro, la scena del balcone, gli addii) avvengono nella notte - e naturalmente la illuminano - mentre i conflitti, le morti e gli allontanamenti avvengono di giorno. Il sole splendente sembra essere la luce dell'odio, non dell'amore".

Tuttavia, sia in Shakespeare sia in Gounod, nella scena del balcone, il sole è la luce dell'amore. In quel momento, Giulietta è il sole - è a lei che Romeo si rivolge quando canta "Ah! lève-toi, soleil!" è questo "sole" che cerca.

Questo rapporto della notte con l'amore e del giorno con la separazione, con l'impossibilità dell'amore, si presta bene all'adattamento operistico, soprattutto nella seconda metà del XIX secolo: è un'associazione cara al Romanticismo e presente in diverse opere, la più emblematica delle quali è naturalmente Tristan und Isolde di Wagner. Non sorprende quindi che Gounod non solo abbia incorporato questa dicotomia nella sua opera, ma l'abbia anche esplorata con maestria. Come spiega il direttore Laurent Campellone nel programma dell'Opéra-Comique per il dicembre 2021, "nell'orchestra, gli archi sono associati alla luna, al femminile, all'elemento liquido, mentre il risveglio, il giorno, il maschile sono rappresentati dai fiati, dal calore del respiro".

Questo gioco di luci e ombre, di chiaroscuri, è una delle caratteristiche più evidenti della messa in scena di Thomas Jolly, con le luci di Antoine Travert. Nei costumi di Sylvette Dequest, Juliette era sempre vestita di bianco, illuminata, in contrasto con l'ambiente grigio e scuro, anche se opulento (lei è il sole, dopo tutto!). Nella scena del balcone, Juliette è in alto, avvolta da un fascio di luce che proviene dall'alto, formando un cono, come se ci fosse una cupola, una fessura, attraverso la quale entra la luce celeste. Sotto, sulla terra, in nero, Romeo la contempla.

Per Jolly, in un video pubblicato sul sito dell'Opéra di Parigi e in un testo del programma di sala, l'ossimoro, questa combinazione di opposti, è molto forte nell'opera: non solo luce e buio, giorno e notte, ma anche amore e odio. Secondo lui, la musica di Gounod esprime questa storia, che intreccia costantemente amore e morte, alternando grandi scene d'insieme a scene in cui i due amanti sono quasi isolati dal mondo per lunghi minuti, come se fossero sospesi; per lui, questo si sente più nella forza della musica di Gounod che nell'opera di Shakespeare. L'allestimento sottolinea questo contrasto con scene d'insieme grandiose, persino esagerate, popolate da coreografie che ricordano la danza moderna, in contrasto con le scene più intime in cui gli amanti sono soli. La prima notte di nozze, ad esempio, si svolge sotto il balcone di Juliette ed è delineata dalle luci che formano la cella di Frère Laurent, che nell'opera di Jolly è una barca.

Sostituire la cella di Frate Laurent con una barca ci porta a diversi significati: ho pensato quasi contemporaneamente alla barca di Pietro, un riferimento così forte nella Bibbia, e alla barca di Caronte, che porta all'Ade, alla morte - Giulietta non aveva detto che la tomba sarebbe stata il suo letto nuziale? È in questa stessa barca che, alla fine dell'opera, Romeo incontrerà Giulietta, all'interno del mausoleo dei Capuleti.

Jolly ha scelto di reintrodurre, proprio all'inizio, durante il preludio, una delle informazioni presenti nell'opera di Shakespeare ed eliminate da Barbier e Carré: la peste. Jolly rafforza così non solo l'atmosfera di morte che incombe sull'opera - nonostante tutto il lirismo, sia nella poesia di Shakespeare sia nella musica di Gounod - ma anche il gioco dei contrasti, poiché, nella messa in scena, i riferimenti alla peste avvengono nello stesso ambiente della festa dei Capuleti.

Benjamin Bernheim, nel video presente sul sito dell'Opera di Parigi, osserva che Romeo cambia completamente dopo aver visto Giulietta per la prima volta, e la musica che Gounod scrive per lui accompagna questo cambiamento: nella prima metà del primo atto, Romeo è pessimista e canta principalmente in tonalità minore, con linee discendenti; dal momento in cui vede Giulietta, la musica di Romeo è quasi interamente in tonalità maggiore, e le sue frasi sono ascendenti, luminose, impetuose. Bernheim ha sottolineato questa trasformazione nel suo canto. All'inizio la sua voce sembrava un po' opaca e proiettata con difficoltà, ma dal momento in cui Romeo ha visto Giulietta, tutto è cambiato: la voce di Bernheim ha preso vita e ha riempito l'intera Bastiglia.

Come abbiamo detto, Romeo ha sentimenti molto forti, e questo è uno dei fattori che porta alla tragedia. È quindi essenziale che l'interprete sia in grado di trasmettere questo personaggio tragico, che è allo stesso tempo passionale e un po' etereo, malinconico, scollegato dalla realtà. Questo è ciò che ha fatto Benjamin Bernheim. L'anno scorso l'ho visto nel ruolo del Duca di Mantova nel Rigoletto di Verdi al Metropolitan Opera. Nonostante la precisione del suo canto, era percepibile la sua difficoltà a incarnare il carattere frivolo, terreno e incoerente di Verdi e Hugo. Nellla parte di Romeo, il suo personaggio è quasi l'opposto di quello del Duca, e il suo successo è totale - è vero che anche Romeo cambia passione in un batter d'occhio, ma non impone nulla a nessuno, è sincero e si dona fino al punto di essere pronto a morire per il suo amore. A differenza del Duca, Romeo è introspettivo, sognatore e puramente lirico. Con il suo timbro luminoso - chiaro, ma legnoso, non metallico - e il fraseggio raffinato, Bernheim ha dato vita a un Romeo memorabile.

Elsa Dreisig, nel video dell'Opéra, dice che Juliette è un personaggio che dice spesso "no", il che è brillante e insolito. Per lei, Juliette cerca di decidere, agisce, ma si lascia sorprendere e, anche di fronte all'imprevisto, non perde l'orientamento. Juliette è vittima dell'odio tra le famiglie, ma non è passiva. Dreisig dice anche che Jolly l'ha aiutata molto nell'interpretazione fisica e carnale del personaggio, aggiungendo questo costante stato di sorpresa, con tutte le frustrazioni e le delusioni che i personaggi attraversano. "Puoi sentire da dove vengono, e in effetti è molto energizzante sul palco: queste sono le chiavi della recitazione, infatti, che alimentano il canto", dice, sottolineando l'importanza dell'aspetto teatrale, che secondo lei non è qualcosa di spontaneo, ma richiede lavoro, comprensione di sé e sperimentazione. E, sottolinea, è proprio questo che fa Juliette: osa, prova.

Cito tutto questo perché, sebbene la giovane Dreisig possa ancora sviluppare la sua interpretazione, la sua preoccupazione di costruire il personaggio, di renderlo davvero vivo, è percepibile sul palco. Oltre a essere molto ben costruita, la sua Giulietta era contagiosamente fresca e giovanile. Inoltre, sebbene Romeo sia il tipico eroe tragico, Giulietta è il personaggio più interessante, quello che prende le decisioni, che sa dire "no", come ha sottolineato Dreisig, ma anche "sì" - e il suo "sì" a Romeo è un atto di coraggio, che non solo cambia la sua vita, ma riporta l'ordine a Verona. Prima di incontrare Romeo, Giulietta è quasi infantile; quando scopre l'identità del suo amato e la gravità della situazione, la affronta con coraggio e maturità - con paura, con scatti d'ira, ma affronta tutto, e il suo processo di maturazione è percepibile: è lei che propone il matrimonio a Romeo. Nel duetto d'amore, dopo la prima notte di nozze, la sua natura infantile vuole negare l'arrivo del giorno, e quando Romeo decide di cedere e rimanere, la più matura Giulietta riappare, costringendolo ad andarsene. L'interpretazione della Dreisig è ricca di questi contrasti. La sua aria gioviale "Je veux vivre" nel primo atto sembra un gioco da ragazzi (nella Giulietta di Shakespeare ha 13 anni), mentre in "Amour, ranime mon courage" nel quarto atto, quando si appresta a bere il filtro, percepiamo la disperazione di una giovane donna esposta a una situazione estrema. Senza contare che, dal punto di vista vocale, la Dreisig riesce brillantemente in questa seconda aria che, per il soprano, rappresenta una sfida ben più grande della prima. Insomma, ciò che rende speciale la Juliette della Dreisig è la giovinezza che trasmette - quella di una giovane donna che deve maturare nel giro di poche ore - sia scenicamente che vocalmente, con un bel timbro luminoso, acuti precisi e un movimento incessante e ben marcato, ben eseguito, naturale, spesso coreografato come una danza.

È stata la seconda volta che ho avuto l'opportunità di ascoltare la Dreisig dal vivo. L'altra volta, in aprile, è stata a Strasburgo, dove la sua Micaëla è stata notevole in una versione da concerto della Carmen. In quell'occasione, il suo canto e la qualità della sua interpretazione avevano già attirato la mia attenzione. È una cantante di poco più di 30 anni, che ha tutto per crescere e raggiungere un livello di eccellenza.

I quattro duetti d'amore sono senza dubbio i punti più alti dell'opera, e lo sono stati anche alla Bastille, non solo per l'eccellente interpretazione dei due protagonisti, ma soprattutto per la perfetta interazione tra loro e l'autenticità che hanno portato alle scene. Nel primo duetto, "Ange adorable", un valzer, quando si incontrano, danzando, durante il ballo, la regia di Jolly è stata particolarmente riuscita, mettendo i due personaggi con le mani che si uniscono senza toccarsi. E Romeo è apparso improvvisamente di fronte a Giulietta non appena lei ha finito di cantare "Je veux vivre".

Jolly ha utilizzato la scalinata del Palais Garnier come scena, collocando l'Opéra Garnier davanti alla Bastille. Nelle interviste e nel programma, lo giustifica come parte di questa unione di opposti, che non sembra avere molto senso: le due case non sono opposte, ma fanno parte della stessa istituzione. D'altra parte, abbiamo un ambiente grandioso, con la scalinata, che si presta bene alla trama. Come il Globe Theatre, la scenografia di Bruno de Lavenère ha un ambiente superiore (come il balcone, dove Giulietta brilla come il sole), che rappresenta uno spazio, diciamo così, celeste; un ambiente "terreno"; e un ambiente inferiore, dove si trovano i morti, creato sotto il balcone - è qui che si svolgono le nozze, la prima notte di nozze e, naturalmente, la morte, come Giulietta canta nel primo atto: "Che la bara sia il mio letto  nuziale!" Qualche esagerazione nelle scene, nei costumi e nella coreografia? Senza dubbio, ma il tutto funziona molto bene, con alcuni momenti davvero belli e poetici.

Anche l'alto livello dei cantanti comprimari ha contribuito all'eccellente performance. Lo Stephano di Marina Viotti, con il suo bel timbro e il suo canto agile, era particolarmente lodevole, anche se il suo personaggio mancava un po' di mascolinità. Anche Jean Teitgen, che ha presentato un austero Frère Laurent con una voce imponente, Sylvie Brunet-Grupposo come Gertrude, Thomas Ricart Benvolio, Maciej Kwaśnikowski Tybalt, Sergio Villegas Galvain Pâris e Jérôme Boutillier Duc de Vérone, per citare solo i personaggi principali, si sono comportati molto bene.

L'interpretazione di Laurent Naouri quale Capulet sembra essersi evoluta tra il 26 giugno, quando è stato registrato il video (ancora disponibile su France TV) e il 12 luglio: mentre nel video il suo fraseggio era sillabico, con un suono opaco, il 12 luglio questo problema era limitato all'inizio, nella scena della festa, quando indossava una maschera e doveva superare un'orchestra più densa. In scena, invece, non sembra essersi adattato bene al movimento proposto da Jolly (a meno che il regista non volesse ridicolizzare il padre di Juliette - ipotesi che il costume in qualche modo rafforza). Anche Florian Sempey, nella parte di Mercutio, pur essendo dotato di una voce imponente e di un buon movimento scenico, ha troncato un po' il fraseggio e spinto un po' la voce, probabilmente ansioso di farsi sentire nel teatro, che non è piccolo - una preoccupazione ingiustificata, visto che la sua voce passava facilmente attraverso l'orchestra.

L'italiano Carlo Rizzi, incaricato della direzione musicale di quest'opera francese, in Francia, con una messa in scena francese e un cast prevalentemente francese, è riuscito a ottenere dall'Orchestre de l'Opéra national de Paris un suono omogeneo e fluido, con tutti i contrasti tra momenti di sottigliezza e grandezza, e soprattutto con il lirismo richiesto dalla musica di Gounod. In nessun momento i cantanti sono stati coperti dalla massa orchestrale.

La qualità del Coro dell'Opéra di Parigi, preparato da Ching-Lien Wu, ha dato un tocco speciale alla rappresentazione, con un suono perfettamente timbrato, come un corpo unico composto da più voci, ma un buon coro non è fatto solo di un buon suono: il suono si adatta alle situazioni. Nel momento in cui Giulietta, se non fosse "morta", sta per sposare Pâris, il suono del coro cambia completamente, dando un certo tono caricaturale al canto: qui sono gli invitati di Capulet alle nozze.

A giudicare da questo Romeo e Giulietta, l'Opéra di Parigi sta trovando una soluzione ai suoi problemi di pubblico. Con un buon cast - grandi protagonisti - una messa in scena grandiosa, classica ma con tocchi moderni (nonostante alcuni elementi di dubbio gusto), e un'opera in repertorio che mancava dalla casa da decenni, la Bastille era piena, almeno per le ultime recite.

Dopo l'esibizione del 12, l'ultima con Dreisig e Bernheim, l'intera Bastille si è alzata per applaudire i due protagonisti. Un tributo meritato!


Fêtons la jeunesse !

par Fabiana Crepaldi

Paris, le 12 juillet 2023 - C'est surprenant, mais le spectacle que j'ai vu le 12 juillet à Paris avec le couple principal de rêve était la première de l'opéra Roméo et Juliette de Charles Gounod à l'Opéra Bastille. En effet, la dernière fois que l'Opéra de Paris a mis l'œuvre sur scène - au charmant et historique Palais Garnier, avec Alfredo Kraus dans le rôle de Roméo - c'était en décembre 1985, et la Bastille n'a été inaugurée qu'en 1989. A l'époque, la parisienne Elsa Dreisig, la Juliette de la Bastille, n'était pas encore née ; Benjamin Bernheim, le Roméo, lui aussi parisien, était encore au berceau !

Cela ne signifie pas, bien sûr, que le lyrisme de l'œuvre de Gounod ait été absent de Paris pendant ces années. Au contraire : la dernière production dans la ville estamour ranime assez récente, datant de décembre 2021, à l'Opéra-Comique. En effet, l’historique Salle Favart est étroitement liée à l'œuvre. Bien qu'il ait été créé en 1867 au Théâtre-Lyrique, une maison concurrente à l'époque de l'Opéra-Comique et de l'Opéra de Paris, il a été transféré à l'Opéra-Comique en 1873 après la disparition de ce théâtre - et a été le premier opéra à enfreindre deux des principales règles de la maison : il n'y a pas de dialogues parlés et la fin de l'opéra est tragique. L'œuvre n'a été présentée à l'Opéra qu'en 1888. La création à l'Opéra-Comique et celle à l'Opéra Garnier, chacune avec ses caractéristiques spécifiques en termes d'orchestre, d'espace et de solistes, représentaient une nouvelle édition de la partition. Celle de 1888, réalisée par Gounod lui-même, qui incorporait le ballet, est celle qui est couramment jouée aujourd'hui.

Lorsque l'on évoque l'amour tragique du célèbre couple de Vérone, on pense immédiatement à William Shakespeare. En effet, contrairement à l'opéra de Bellini (I Capuleti e I Montecchi) et aux autres adaptations italiennes du début du XIXe siècle, Jules Barbier et Michel Carré se sont directement inspirés de Shakespeare pour écrire le livret de Roméo et Juliette. Plus encore : ils ont conservé la structure en cinq actes de la pièce, caractéristique du théâtre shakespearien.

Les origines du couple suicidaire se trouvent cependant dans l'amour interdit entre Pyrame et Tisbe chez Ovide. De plus, selon la critique de théâtre brésilienne Barbara Heliodora, spécialiste de Shakespeare, dans l'introduction à sa traduction portugaise de Romeo and Juliet, « au troisième siècle, dans une histoire grecque, pour la première fois, une femme a recours à la potion simulant la mort pour échapper à un second mariage avec son mari vivant, mais le thème devient vraiment populaire à la Renaissance ; en 1476, dans "Il Novellino" de Masuccio, le poison est déjà administré par un frère ».

L'histoire commence à prendre la forme que nous lui connaissons en 1530, avec l'Italien Luigi da Porto, lorsqu'apparaissent les Cappelleti (qui deviendront plus tard les Capuleti) et les Montecchi, qui avaient déjà peuplé le chapitre VI du Purgatorio de la Divine Comédie de Dante Alighieri. Da Porto, qui était apparemment plus préoccupé par ses propres aventures amoureuses que par les questions politiques ou sociales, précise néanmoins que le conflit entre les familles était dû au fait que les Cappelleti étaient des guelfes, partisans du pape, et les Montecchi, des gibelins, défenseurs des pouvoirs du Saint Empire romain. Un peu plus de vingt ans après da Porto, l'écrivain Matteo Bandello, également italien, a publié sa version de l'histoire dans le but de mettre en garde les jeunes contre le danger des passions. En 1562, l'œuvre de Bandello a été traduite en anglais sous la forme d'un poème d'Arthur Brooke : The Tragicall Historye of Romeus and Juliet. Cette œuvre est la principale source de la célèbre pièce de Shakespeare.

Brooke a suivi la même ligne que Bandello : dans sa préface, il précise que son œuvre se prête à encourager les hommes à éviter les « folles affections », à se restreindre par rapport aux plaisirs de la chair. Brooke s'adresse au "bon" lecteur, à qui la tragédie est destinée : « pour vous décrire un couple d'amants malheureux, qui ont été asservis par un désir malhonnête, méprisant l'autorité et les conseils de leurs parents et de leurs amis, se donnant pour principaux conseillers des commères ivres et des frères superstitieux (...), hâtant ainsi la plus malheureuse des morts ».

La touche d'innovation et d'ingéniosité de Shakespeare ne réside donc pas dans la création de l'intrigue, mais dans la manière dont il l'a envisagée, dans la façon dont il l'a racontée et structurée, dans le sens qu'il lui a donné. Shakespeare ne se préoccupe pas de condamner ses jeunes héros ou d'éduquer qui que ce soit contre les passions. Comme toujours, il s'intéresse plutôt au fonctionnement de la société. L'amour entre Roméo et Juliette s'oppose à la haine qui règne entre leurs familles respectives. C'est donc cette haine, ce conflit, ce désordre qui est la cause des morts tragiques, et non les passions.

Chez Shakespeare, il y a toujours un désordre social et un antagonisme entre deux groupes. Dans Roméo et Juliette, ces deux facteurs se retrouvent dans le conflit entre les deux familles - et dans la pièce, la raison de ce conflit n'est même pas mentionnée, peu importe : ce qui compte, c'est que la querelle est quelque chose qui entraîne une grave perturbation sociale, une division, une animosité, et constitue une désobéissance évidente à l'autorité du prince. En ce sens, il s'agit d'une œuvre qui parle beaucoup à notre société, dont les divisions et les conflits sont de plus en plus accentués et alimentés par les médias sociaux.

Chez Gounod, il est clair que c'est cet antagonisme, ce trouble social qui engendre la tragédie, et la désobéissance du prince est également exposée, bien qu'il n'apparaisse pas autant que dans l'œuvre de Shakespeare. À la fin de la pièce, une fois la tragédie consommée, le prince réapparaît, réprimande les familles et, au prix de la vie des jeunes gens, parvient à rétablir la paix. À la fin de l'opéra, la leçon est donnée, mais aucun accord de paix n'est conclu, et il n'y a pas non plus de réprimande aussi catégorique de l'autorité sur les parents nobles et insensibles - ce qui n'aurait pas été bien perçu par la société de l'époque de Gounod.

D'autres caractéristiques des tragédies shakespeariennes sont déjà présentes dans cette œuvre qui, selon les spécialistes, a dû être créée au début de la phase lyrique de l'auteur, entre 1595 et 1597 : le comportement, les décisions des personnages mènent à la tragédie ; les sentiments du héros tragique sont extrêmes, exagérés ; un hasard, un incident, contribue à aggraver les choses ; une mauvaise décision, une erreur, mène également à la tragédie. Il est facile d'identifier tous ces éléments dans Romeo and Juliet. Romeo est le type mélancolique qui ne contrôle pas ses passions. Les incidents présents dans la pièce ont été éliminés de l'opéra : à cause d'une peste présumée, le moine chargé d'envoyer la lettre à Romeo, l'avertissant de la fausse mort de Juliet, n'est pas parvenu à Mantoue - dans l'opéra, on ne sait pas pourquoi la lettre n'est pas arrivée ; pour remédier à la profonde tristesse de Juliet, prétendument causée par la mort de Tybalt, Capulet décide de marier sa fille - dans l'opéra, il s'agit de la dernière volonté de Tybalt, qui avait vu Juliette avec Roméo, ce qui enlève à cette décision son caractère inhabituel.

Un autre point très important dans Romeo and Juliet est la relation entre le jour et la nuit, le soleil et la lune. Comme le dit Barbara Heliodora : « L'amour et la jeunesse sont la lumière ; le chagrin et la douleur sont l'obscurité, ils sont le soleil qui se couche ou qui ne veut pas se lever. Il y a l'image du soleil qui brille, des étoiles, du clair de lune, des bougies, des torches, de la rapidité des éclairs ; il y a l'image de l'obscurité qui vient, des nuages, de l'ombre, de la nuit. Mais tout cela est très complexe, car les grands moments de bonheur (la rencontre, la scène du balcon, les adieux) arrivent dans la nuit - et l'éclairent naturellement, tandis que les conflits, les morts et les bannissements ont lieu le jour. Le soleil éclatant semble être la lumière de la haine et non de l'amour ».

Cependant, chez Shakespeare comme chez Gounod, dans la scène du balcon, le soleil est la lumière de l'amour. À ce moment-là, Juliette est le soleil - c'est vers elle que Roméo se tourne lorsqu'il chante Ah ! lève-toi, soleil ! c'est ce "soleil" qu'il recherche.

Cette relation de la nuit à l'amour et du jour à la séparation, à l'impossibilité de l'amour, se prête bien à l'adaptation lyrique, surtout dans la seconde moitié du XIXe siècle : c'est une association chère au romantisme et présente dans plusieurs œuvres - dont la plus emblématique est bien sûr Tristan und Isolde de Wagner. Il n'est donc pas étonnant que Gounod non seulement intègre cette dichotomie dans son œuvre, mais qu'il l'explore avec maestria. Comme l'explique le chef d'orchestre Laurent Campellone dans le programme de l'Opéra-Comique de décembre 2021, « à l’orchestre, les cordes sont associées à la lune, au féminin, à l’élément liquide, tandis que l’éveil, le jour, le masculin sont représentés par les bois, la chaleur du souffle ».

Ce jeu d'ombre et de lumière, de clair-obscur, est l'une des caractéristiques les plus frappantes de la mise en scène de Thomas Jolly, qui s'est appuyé sur les lumières d'Antoine Travert. Dans les costumes de Sylvette Dequest, Juliette était toujours en blanc, illuminée, contrastant avec l'environnement gris et sombre, bien qu'opulent - elle est le soleil, après tout ! Dans la scène du balcon, Juliette est en haut, éclairée par un faisceau de lumière venant d'en haut, formant un cône, comme s'il y avait une coupole, une fente, par laquelle entrait une lumière céleste. En bas, terrestre, en noir, Roméo la contemple.

Pour Jolly, dans une vidéo publiée sur le site de l'Opéra de Paris (https://youtu.be/66QRfgUw24E) et dans un texte du programme, l'oxymore, cette combinaison des contraires, est très forte dans l'œuvre : non seulement la lumière et l'obscurité, le jour et la nuit, mais aussi l'amour et la haine. Selon lui, la musique de Gounod exprime cette histoire qui mêle sans cesse l'amour et la mort, alternant des scènes de grand ensemble avec des scènes où les deux amants sont presque isolés du monde pendant de longues minutes, comme s'ils étaient suspendus - et, pour lui, cela se ressent plus dans la force de la musique de Gounod que dans la pièce de Shakespeare. La production souligne ce contraste avec des scènes d'ensemble grandioses, voire démesurées, peuplées de chorégraphies rappelant la danse moderne, par opposition aux scènes plus intimes dans lesquelles les amants sont seuls. La nuit de noces, par exemple, se déroule sous le balcon de Juliette et est délimitée par les lumières qui forment la cellule de Frère Laurent, qui, chez Jolly, est un bateau.

Le remplacement de la cellule de Frère Laurent par une bateau nous amène à plusieurs significations : j'ai pensé presque simultanément à la barque de Pierre, référence si forte dans la Bible, et à celle de Charon, qui mène à l'Hadès, à la mort - Juliette n'a-t-elle pas dit que le tombeau serait son lit de noces ? C'est dans cette même barque que, à la fin de l'opéra, Roméo rencontrera Juliette, à l'intérieur du mausolée des Capulet.

Jolly a choisi de réintroduire, juste au début, pendant le prélude, une des informations présentes dans la pièce de Shakespeare et éliminées par Barbier et Carré : la peste. Jolly renforce ainsi non seulement l'atmosphère de mort qui plane sur l'œuvre - malgré tout le lyrisme, que ce soit de la poésie de Shakespeare ou de la musique de Gounod - mais aussi le jeu des contrastes, puisque, dans la mise en scène, les références à la peste se produisent dans le même environnement que celui où se déroulera la fête des Capulet.

Benjamin Bernheim, dans la vidéo sur le site de l'Opéra de Paris (https://youtu. be/-XL9O9qtusU), observe que Roméo change complètement après avoir vu Juliette pour la première fois, et la musique que Gounod écrit pour lui accompagne ce changement : dans la première moitié du premier acte, Roméo est pessimiste et chante principalement en tonalité mineure, avec des lignes descendantes ; à partir du moment où il voit Juliette, la musique de Roméo est presque entièrement en tonalité majeure, et ses phrases sont ascendantes, lumineuses, impétueuses. Et Bernheim a souligné cette transformation dans son chant. Au début, sa voix semblait un peu opaque et se projetait avec difficulté, mais à partir du moment où Roméo a vu Juliette, tout a changé : la voix de Bernheim a pris de l'éclat et a rempli toute la Bastille.

Comme nous l'avons dit plus haut, Roméo a des sentiments très forts, et c'est l'un des facteurs qui conduisent à la tragédie. Il est donc essentiel que l'interprète puisse rendre compte de ce personnage tragique, à la fois passionné et un peu éthéré, mélancolique, déconnecté de la réalité. C'est ce qu'a fait Benjamin Bernheim. L'année dernière, je l'ai vu dans le rôle du Duc de Mantoue dans Rigoletto de Verdi au Metropolitan Opera. Malgré la précision du chant, sa difficulté à incarner le personnage frivole, terreux et inconséquent de Verdi et Hugo était perceptible. Dans le rôle de Roméo, son personnage est presque à l'opposé du Duc et sa réussite est totale - certes, Roméo change aussi de passion en un clin d'œil, mais il n'impose rien à personne, il est sincère et se donne au point d'être prêt à mourir pour son amour. Contrairement au Duc, Roméo est introspectif, rêveur et lyrique à l'état pur. Avec son timbre lumineux et juste - clair, mais boisé, pas métallique - et son phrasé raffiné, Bernheim a donné vie à un Roméo mémorable.

Elsa Dreisig, dans la vidéo de l'Opéra (https://youtu.be/D5DbFYWik58), dit que Juliette est un personnage qui dit beaucoup "non", ce qui est à la fois génial et inhabituel. Pour elle, Juliette essaie de faire la part des choses, agit, mais se laisse surprendre et, même face à l'inattendu, ne perd pas le nord. Juliette est victime de la haine entre les familles, mais elle n'est pas passive. Dreisig dit aussi que Jolly l'a beaucoup aidée dans l'interprétation physique et charnelle du personnage en ajoutant cet état de surprise permanent - avec toutes les frustrations et les déceptions que les personnages traversent. « On sent leurs cheminements, c'est très dynamisant en fait sur scène : ce sont des clés du jeu de l'acteur en fait qui nourrissent le chant », dit-elle, soulignant l'importance de l'aspect théâtral qui, selon elle, n'est pas quelque chose de spontané, mais demande du travail, de la compréhension de soi et de l'expérimentation. Et, rappelle-t-elle, c'est précisément ce que fait Juliette : elle ose, elle essaie.

J'évoque tout cela parce que, si la jeune Dreisig peut encore approfondir son interprétation, son souci de construire le personnage, de le faire vivre vraiment, est perceptible sur scène. En plus d'être très bien construite, sa Juliette était d'une fraîcheur et d'une jeunesse contagieuses. De plus, bien que Roméo soit le héros tragique typique, Juliette est le personnage le plus intéressant, c'est elle qui prend les décisions, qui sait dire "non", comme l'a fait remarquer Dreisig, mais aussi "oui" - et son "oui" à Roméo est un acte de courage, qui change non seulement sa vie, mais rétablit l'ordre à Vérone. Avant de rencontrer Roméo, Juliette est presque puérile ; lorsqu'elle découvre l'identité de son bien-aimé et la gravité de la situation, elle y fait face avec courage et maturité - avec peur, avec des accès de colère, mais elle fait face à tout, et son processus de maturation est perceptible - c'est elle qui propose à Roméo de se marier. Dans le duo d'amour, après la nuit de noces, sa nature enfantine veut nier la venue du jour, et lorsque Roméo décide de céder et de rester, la Juliette plus mûre réapparaît, qui l'oblige à partir. L'interprétation de Dreisig est riche en ces contrastes. Son air jovial Je veux vivre, au premier acte, sonne comme un jeu d'enfant (chez Shakespeare, Juliet a 13 ans), tandis que dans Amour, ranime mon courage, au quatrième acte, lorsqu'elle va boire le philtre, on sent le désespoir d'une jeune femme exposée à une situation extrême. Sans compter que, d'un point de vue vocal, Dreisig réussit avec brio ce deuxième air qui, pour la soprano, représente un défi bien plus grand que le premier. En somme, ce qui fait la particularité de la Juliette de Dreisig, c'est la jeunesse qu'elle transmet - celle d'une jeune femme qui doit mûrir en quelques heures - tant scéniquement que vocalement, avec un beau timbre lumineux, des aigus précis, avec un mouvement incessant et bien marqué, bien exécuté, naturel, souvent chorégraphié comme une danse.

C'était la deuxième fois que j'avais l'occasion d'entendre Dreisig en direct. L'autre fois, en avril, c'était à Strasbourg, où sa Micaëla était remarquable dans une Carmen en version de concert. Là, son chant et la qualité de son interprétation avaient déjà attiré mon attention. C'est une chanteuse d'un peu plus de 30 ans, qui a tout pour grandir encore et atteindre un niveau d'excellence.

Les quatre duos d'amour sont sans aucun doute les points forts de l'œuvre, et ils l'ont été à la Bastille, non seulement grâce aux excellentes prestations des deux protagonistes, mais surtout grâce à la parfaite interaction entre eux, à l'authenticité qu'ils ont su donner aux scènes. Dans le premier duo, Ange adorable, une valse, lorsqu'ils se rencontrent, en dansant, pendant le bal, la mise en scène de Jolly a été particulièrement heureuse, qui a placé les deux personnages en train de danser, leurs mains se rapprochant sans se toucher. Et Roméo est soudain apparu devant Juliette dès qu'elle a fini de chanter Je veux vivre.

Jolly a utilisé l'escalier du Palais Garnier comme décor, plaçant ainsi l'Opéra Garnier avant la Bastille. Dans les interviews et dans le programme, il justifie cela comme faisant partie de cette union des contraires, ce qui ne semble pas avoir beaucoup de sens - les deux maisons ne sont pas opposées, mais font partie de la même institution. En revanche, nous avons un cadre grandiose, avec l'escalier, qui se prête bien à l'intrigue. Comme le Globe Theatre, le décor de Bruno de Lavenère comporte un environnement supérieur (comme le balcon, où Juliette brille comme le soleil), qui représente un espace, disons, céleste ; un environnement "au sol" ; et un environnement inférieur, où se trouvent les morts, créé sous le balcon - c'est là que se déroulent le mariage, la nuit de noces et, bien sûr, la mort, comme Juliette l'avait chanté au tout premier acte : Que le cercueil soit mon lit nuptiale ! Quelques exagérations dans les décors, les costumes et les chorégraphies ? Sans doute, mais l'ensemble fonctionne très bien, avec de vrais moments de beauté et de poésie.

Le bon niveau des chanteurs de soutien a également contribué à l'excellent résultat du spectacle. Le Stephano de Marina Viotti, au beau timbre et au chant agile, est particulièrement remarquable, même si son personnage manquait un peu de masculinité. Jean Teitgen, qui a présenté un Frère Laurent austère avec une voix imposante, Sylvie Brunet-Grupposo en Gertrude, Thomas Ricart en Benvolio, Maciej Kwaśnikowski en Tybalt, Sergio Villegas Galvain en Pâris et Jérôme Boutillier en Duc de Vérone, pour ne citer que les personnages principaux, se sont également très bien comportés.

L'interprétation de Laurent Naouri comme Capulet semble avoir évolué entre le 26 juin, date de l'enregistrement de la vidéo (toujours disponible sur France TV) et le 12 juillet : si dans la vidéo son phrasé était syllabique, avec un son opaque, le 12 ce problème était limité au début, dans la scène de la fête, lorsqu'il portait un masque et qu'il devait surmonter un orchestre plus dense. Scéniquement, en revanche, il semble ne pas s'être bien adapté au mouvement proposé par Jolly (à moins que le metteur en scène ait voulu ridiculiser le père de Juliette - hypothèse que le costume renforce d'une certaine manière). Florian Sempey, le Mercutio, lui aussi, bien que doté d'une voix imposante et d'un bon mouvement scénique, a un peu tronqué son phrasé et poussé sa voix, probablement soucieux de se faire entendre dans le théâtre, qui n'est pas petit - souci injustifié, car sa voix passait aisément à travers l'orchestre.

Le chef italien Carlo Rizzi, chargé de la direction musicale de cet opéra français, en France, avec une mise en scène française et une distribution majoritairement française, a réussi à obtenir de l'Orchestre de l'Opéra national de Paris une sonorité homogène et fluide, avec tous les contrastes entre les moments de subtilité et de grandeur, et surtout avec le lyrisme qu'exige la musique de Gounod. A aucun moment les chanteurs n'ont été couverts par la masse orchestrale.

La qualité du Chœur de l'Opéra national de Paris, préparé par Ching-Lien Wu, a donné un éclat particulier au spectacle, avec un son parfaitement timbré, comme un corps unique formé de plusieurs voix, mais un bon chœur n'est pas seulement fait d'un bon son : le son s'est adapté aux situations. Au moment où Juliette, si elle n'était pas "morte", allait épouser Pâris, le son du chœur a complètement changé, donnant un certain ton caricatural au chant - là, ils étaient les invités de Capulet pour le mariage.

À en juger par ce Roméo et Juliette, l'Opéra de Paris est en train de trouver une solution à ses problèmes d'audience. Avec une bonne distribution - de grands protagonistes - une mise en scène grandiose, classique mais avec des touches modernes (malgré quelques éléments de goût douteux), et une œuvre du répertoire absente de la maison depuis des décennies, la Bastille a été pleine, du moins lors des derniers récitas - j'avais l'intention de voir la distribution alternative, le 15, mais je n'ai pas pu, parce que les billets étaient épuisés et il y avait une longue file d'attente.

Après la représentation du 12, la dernière avec Dreisig et Bernheim, toute la Bastille s'est levée pour applaudir les deux protagonistes. Un hommage bien mérité !


Fêtons la jeunesse! 

de Fabiana Crepaldi

PARIS, 12 de julho 2023 - É surpreendente, mas o espetáculo que tive o privilégio de ver, no dia 12 de julho, em Paris, com o casal de protagonistas dos sonhos, foi a première da ópera Roméo et Juliette, de Charles Gounod, na Opéra Bastille. De fato, a última vez que a Opéra de Paris levou a obra ao palco – no charmoso e histórico Palais Garnier, com Alfredo Kraus no papel de Roméo – foi em dezembro de 1985, e a Bastille só foi inaugurada em 1989. Na época, sequer havia nascido a parisiense Elsa Dreisig, a Juliette da Bastille; Benjamin Bernheim, o Roméo, também parisiense, ainda estava no berço! 

Isso não significa, evidentemente, que o lirismo da obra de Gounod não tenha passado por Paris durante esses anos. Ao contrário: a última produção na cidade é bastante recente, data de dezembro de 2021, na Opéra-Comique. Aliás, a histórica Salle Favart está intimamente ligada à obra. Embora tenha sido criada em 1867 no Théâtre-Lyrique, casa concorrente, na época, da Opéra-Comique e da Opéra de Paris, com o fim desse teatro, seguiu, em 1873, para a Opéra-Comique – e foi a primeira ópera a quebrar com duas das principais regras da casa: não tem diálogos falados e tem um final trágico. A obra estreou na Opéra apenas em 1888. Aproveito, aqui, para observar que tanto a estreia na Opéra-Comique quanto aquela na Opéra Garnier, cada uma com suas características específicas em termos de orquestra, espaço e solistas, representou uma nova edição da partitura. A de 1888, realizada pelo próprio Gounod, que incorporou o ballet, é a normalmente apresentada hoje em dia.

Quando se fala no amor trágico do célebre casal de Verona, logo se pensa em William Shakespeare. De fato, ao contrário do que acontece com a ópera de Bellini (I Capuleti e I Montecchi) e outras adaptações italianas do início do século XIX, para escrever o libreto de Roméo et Juliette, Jules Barbier e Michel Carré se basearam diretamente em Shakespeare. Mais que isso: mantiveram a estrutura de cinco atos da peça, que é uma característica do teatro shakespeareano.

As origens do casal suicida, no entanto, podem ser encontradas no amor proibido entre Píramo e Tisbe, em Ovídio. Além disso, segundo Barbara Heliodora na introdução à sua tradução para o português de Romeu e Julieta“no século III, em uma historieta grega, pela primeira vez uma mulher recorre à poção que simula a morte para escapar a um segundo casamento com o marido vivo, mas o tema se torna realmente popular na Renascença; em 1476, em ‘Il Novellino’, de Masuccio, o veneno já é ministrado por um frade”.

A história passa a se aproximar dos moldes em que a conhecemos em 1530, com o italiano Luigi da Porto, quando aparecem os Cappelleti (que depois viraram Capuleti) e os Montecchi, que já haviam povoado o capítulo VI do Purgatório da Divina Comédia, de Dante Alighieri. Da Porto, que, aparentemente, estava mais preocupado com suas próprias aventuras amorosas que com questões políticas ou sociais, esclarece, no entanto, que a disputa entre as famílias se dava porque os Cappelleti eram guelfos, partidários do Papa, e os Montecchi, gibelinos, defensores dos poderes do Sacro Império Romano. Pouco mais de vinte anos depois de da Porto, o escritor Matteo Bandello, também italiano, com o objetivo de advertir os jovens sobre o perigo das paixões, publicou a sua versão da história. Em 1562, a obra de Bandello foi traduzida para o inglês, em forma de poema, por Arthur Brooke: The Tragicall Historye of Romeus and Juliet. Foi essa a principal fonte da célebre peça de Shakespeare.

Brooke seguiu a mesma linha de Bandello: em seu prefácio, deixa claro que sua obra se presta a encorajar os homens a evitarem as “afeições loucas”, que sejam contidos em relação aos prazeres da carne. Segundo a tradução de Heliodora, Brooke se dirige ao “bom” leitor, ao qual a tragédia é endereçada: “para descrever para ti um casal de amantes infelizes, que foi escravizado pelo desejo desonesto, desrespeitando a autoridade e o conselho de pais e amigos, constituindo seus principais conselheiros alcoviteiras bêbadas e frades supersticiosos (…), apressando a mais infeliz das mortes”.

O inovador e genial toque autoral de Shakespeare, portanto, não está na criação da trama, mas no olhar que lançou sobre ela, na forma como a contou e a estruturou, no sentido que deu a ela. Shakespeare não está preocupado em condenar os seus jovens heróis ou educar quem quer que seja contra as paixões. Como sempre, a preocupação dele está mais voltada ao funcionamento da sociedade. O amor entre Romeo e Juliet se contrapõe ao ódio que reinava entre as suas respectivas famílias. É, pois, esse ódio, esse conflito, essa desordem a causa das trágicas mortes, e não as paixões.

Nas obras de Shakespeare, sempre há uma desordem social e um antagonismo entre dois grupos. Em Romeo and Juliet, esses dois fatores podem ser encontrados no conflito entre as duas famílias – e na peça, o motivo desse conflito não é sequer mencionado, não importa: o que importa é que a briga é algo que traz um sério distúrbio social, uma divisão, uma animosidade, e é uma clara desobediência à autoridade do príncipe. Nesse sentido, é uma obra que fala muito à nossa sociedade, com suas divisões e conflitos cada vez mais acentuados e alimentados pelas redes sociais.

Em Gounod, fica claro que foi esse antagonismo, esse distúrbio social que gera a tragédia, e também é exposta a desobediência ao príncipe, embora ele não tenha tantas aparições quanto na obra de Shakespeare. No fim da peça, consumada a tragédia, o príncipe reaparece, repreende as famílias e, aí sim, às custas da vida dos jovens, consegue estabelecer a paz. No fim da ópera, a lição é dada, mas não é celebrado um acordo de paz, e nem há uma repreensão tão enfática da autoridade sobre os nobres e insensíveis pais – coisa que não seria bem recebida pela sociedade dos tempos de Gounod.

Outras características das tragédias shakespeareanas já estão presente nessa obra que, segundo estudiosos, deve ter estreado no início da fase lírica do autor, entre 1595 e 1597: o comportamento, as decisões dos personagens levam à tragédia; os sentimentos do herói trágico são extremos, exagerados; um acaso, um incidente, ajuda a piorar as coisas; uma decisão errada, um engano, também conduz à tragédia. É fácil identificar tudo isso em Romeo and Juliet. Romeo é do tipo melancólico, que não tem o menor domínio sobre as suas paixões. Os incidentes, presentes na peça, foram eliminados da obra: por conta de uma suspeita de peste, o monge encarregado de enviar a carta a Romeo, avisando-o sobre a falsa morte de Juliet, não conseguiu chegar a Mântua — na ópera, não fica claro por que a carta não chegou; para curar a profunda tristeza de Juliet, causada supostamente pela morte de Tybalt, Capulet resolve casar a filha — na ópera, esse foi o último desejo de Tybalt, que havia visto Juliette com Roméo, tirando o caráter inusitado da decisão.

Outro ponto muito importante em Romeo and Juliet é a relação entre a noite e o dia, o sol e a lua. Nas palavras de Barbara Heliodora: “O amor e a juventude são luz; a tristeza e a dor são sombrias, são o sol que se põe ou que não quer nascer. Há a imagem do brilho do sol, das estrelas, de luar, velas, tochas, da rapidez da luz do raio; há a imagem da escuridão que chega, de nuvens, sombra, noite. Mas é tudo muito complexo, porque os grandes momentos de felicidade (o encontro, a cena do balcão, a despedida) vêm na noite — e, naturalmente, a iluminam, enquanto os conflitos, mortes e o banimento dão-se de dia. O sol claro parece ser a luz do ódio, não do amor”.

Tanto em Shakespeare quanto em Gounod, contudo, na cena do balcão, o sol é a luz do amor. Nesse momento, Juliette é o sol – é a ela que Roméo se dirige quando canta Ah! lève-toi, soleil!, é esse “sol” que ele busca.

Essa relação da noite com o amor e do dia com a separação, com a impossibilidade do amor, vem bem a calhar à adaptação operística, sobretudo na segunda metade do século XIX: é uma associação cara ao Romantismo e presente em várias obras – a mais emblemática delas, claro, é Tristan und Isolde, de Wagner. Não à toa, Gounod não somente incorpora essa dicotomia à sua obra, mas a explora com maestria. Como explica o maestro Laurent Campellone no programa de sala de dezembro de 2021, da Opéra-Comique, “Na orquestra, as cordas estão associadas à lua, ao feminino, ao elemento líquido, enquanto os sopros de madeira representam o despertar, o dia, o masculino, o calor da respiração”. 

 

Esse jogo de claro e escuro, luz e sombra, é uma das características mais marcantes da produção do diretor cênico francês Thomas Jolly, que contou com a ótima iluminação de Antoine Travert. Nos figurinos de Sylvette Dequest, Juliette estava sempre de branco, iluminada, contrastando com o ambiente um tanto sombrio e cinzento, embora opulento — afinal de contas, ela é o sol! Na cena do balcão, Juliette está na parte superior, iluminada por um feixe de luz que vem de cima, formando um cone, como se lá houvesse uma cúpula, uma fenda, por onde entrasse uma luz celeste. Na parte inferior, terrena, de preto, Roméo a contempla.

Para Jolly, em vídeo publicado no site da Opéra de Paris (https://youtu.be/66QRfgUw24E) e em texto do programa de sala, o oxímoro, essa combinação de opostos, é muito forte na obra: não só luz e escuridão, dia e noite, mas também amor e ódio. Segundo ele, a música de Gounod transmite essa história que mistura amor e morte o tempo todo, alternando cenas de grande conjunto com cenas dos dois amantes quase que isolados do mundo durante longos minutos, como se eles ficassem suspensos – e, para ele, isso se sente mais com a força da música de Gounod que na peça de Shakespeare. A produção salientou esse contraste com cenas de conjunto grandiosas, até empetecadas demais, populosas, com coreografias que remetem a danças modernas, em contraponto a cenas mais intimistas, em que os amantes estão sozinhos. A noite de núpcias, por exemplo, é ambientada sob o balcão de Juliettte e delimitada pelas luzes que formavam a cela de Frère Laurent, que em Jolly era um barco. 

A substituição da cela de Frère Laurent por um barco nos conduz a diversos significados: ocorreram-me, quase que simultaneamente, o barco de Pedro, uma referência tão forte na Bíblia, e o de Caronte, que conduz ao Hades, à morte — Juliette não falou que o túmulo seria seu leito nupcial? Será nesse mesmo barco que, no final da ópera, Roméo encontrará Juliette, dentro do mausoléu dos Capulets.

Jolly optou por, logo no início, durante o prelúdio, reintroduzir uma das informações presentes na peça de Shakespeare e eliminada por Barbier e Carré: a peste. Desse modo, Jolly reforça não apenas esse clima de morte que paira pela obra – mesmo com todo o lirismo, seja da poesia de Shakespeare, seja da música de Gounod —, mas também o jogo de contrastes, já que, na produção, as referências à peste ocorrem no mesmo ambiente em que se dará a festa dos Capulets.

Outra acertada escolha de Jolly aproximou mais o espetáculo da obra-prima literária. Quando a mãe comunica a Juliet (a de Shakespeare) que ela deverá se casar com Paris, ela se revolta e é repreendida pelo pai. Em Gounod isso não acontece: Frère Laurent ordena que ela fique quieta e ela não se manifesta. Em Jolly, Juliette não consegue esconder a sua insatisfação com a decisão do pai, o que tornou a personagem mais humana e mais próxima da construção genial de Shakespeare.

Benjamin Bernheim, no vídeo presente no site da Opéra de Paris (https://youtu.be/-XL9O9qtusU), observa que Roméo muda completamente depois de ter visto Juliette pela primeira vez, e a música que Gounod escreve para ele acompanha essa mudança: na primeira metade do primeiro ato, Roméo é pessimista e canta majoritariamente frases em tonalidade menor, com linhas descendentes; a partir do momento em que vê Juliette, a música de Roméo passa a ser quase que totalmente em tonalidade maior, e suas frases passam a ser ascendentes, luminosas, impetuosas. E Bernheim salientou, com seu canto, essa transformação sofrida por seu personagem. No começo, sua voz parecia um pouco opaca e se projetava com certa dificuldade, mas a partir do momento em que Roméo viu Juliette, tudo mudou: a voz de Bernheim ganhou brilho e preencheu toda a Bastille.

Como dito acima, Roméo tem sentimentos acentuados, e esse é um dos fatores que conduz à tragédia. É, pois, fundamental ao intérprete conseguir transmitir esse caráter trágico, ao mesmo tempo apaixonado e meio etéreo, melancólico, fora da realidade. Foi o que fez Benjamin Bernheim. No ano passado, eu o vi como o Duque de Mântua, em Rigoletto, de Verdi, no Metropolitan Opera. Lá, apesar do canto preciso, foi notória a dificuldade que ele teve para encarnar aquele personagem frívolo, terreno e inconsequente de  Verdi e Hugo. Como Roméo, seu personagem é quase que o oposto do Duque e o seu sucesso foi total – é verdade, Roméo também muda de paixão com a rapidez do olhar, mas nada impõe, é sincero e se doa a ponto de estar disposto a morrer por seu amor. Ao contrário do Duque, Roméo é introspectivo, sonhador e puro lirismo. Com o seu timbre luminoso na medida certa — claro, mas amadeirado, não metálico — e o seu fraseado refinado, Bernheim deu vida a um Roméo memorável.

Elsa Dreisig, no vídeo da Opéra (https://youtu.be/D5DbFYWik58), diz que Juliette é um personagem que diz muito “não”, o que é tanto genial quanto incomum. Para ela, Juliette busca resolver as coisas, tem ação, mas é surpreendida e, mesmo diante do imprevisto, não perde o rumo. Juliette é vítima do ódio entre as famílias, mas não é passiva. Dreisig conta, também, que Jolly a ajudou muito na interpretação física e carnal do personagem ao adicionar esse estado de constante surpresa – com direito a todas as frustrações e decepções pelas quais os personagens passam. “Nós sentimos os seus caminhos, é muito eletrizante fazer isso em cena: é o jogo de ator que, de fato, nutre o canto”, disse, salientando a importância do aspecto teatral que, segundo conta, não é algo espontâneo, mas demanda trabalho, autocompreensão e experimentação. E, lembra ela, é justamente o que Juliette faz: ela ousa, ela tenta.

Citei tudo isso porque, embora ainda haja espaço para a jovem Dreisig atingir uma interpretação mais profunda, sua preocupação com a construção da personagem, com realmente viver essa personagem, se faz sentir no palco. Além de muito bem construída, sua Juliette foi de frescor e jovialidade contagiantes. Além disso, embora Roméo seja o típico herói trágico, Juliette é a personagem mais interessante, é ela quem toma as decisões, sabe dizer “não”, como observou Dreisig, mas também “sim” — e o seu “sim” para Roméo é um ato de coragem, que muda não somente a sua vida, mas restabelece a ordem em Verona. Antes de conhecer Roméo, Juliette beira a infantilidade; ao descobrir a identidade do amado e a gravidade da situação, enfrenta-a com coragem e maturidade – com medo, com acessos de cólera, mas enfrenta tudo, e o seu processo de amadurecimento é perceptível — é ela quem propõe a Roméo que se casem. No dueto de amor, após a noite de núpcias, sua natureza infantil quer negar a chegada do dia, e quando Roméo resolve ceder e ficar, ressurge a Juliette mais madura, que o faz partir. A interpretação de Dreisig é rica nesses contrastes. Sua jovial arieta Je veux vivre, no primeiro ato, soou com a graciosidade de uma brincadeira infantil (em Shakespeare, Juliet tem 13 anos), enquanto que em Amour, ranime mon courage, no quarto ato, quando ela vai beber a poção, foi possível sentir o desespero de uma jovem exposta a uma situação extrema. Isso sem contar que, do ponto de vista vocal, Dreisig conseguiu vencer com louvor essa segunda ária, que para a soprano representa um desafio bem maior que a primeira. Em suma, o que torna a Juliette de Dreisig especial é a jovialidade que transmite – de uma jovem que está tendo que amadurecer em uma questão de horas –, tanto cênica quanto vocalmente, com o seu timbre belo e brilhante, agudos precisos, com uma movimentação incessante e bem marcada, bem executada, natural, muitas vezes coreografada como uma dança.

Essa foi a segunda vez que tive a oportunidade de ouvir Dreisig ao vivo. A anterior, em abril, foi em Strasbourg, onde a sua Micaëla se destacou em uma Carmen em forma de concerto. Ali, o seu canto e a qualidade da sua interpretação já me haviam chamado a atenção. É uma cantora de pouco mais de 30 anos, que tem tudo para crescer ainda mais e atingir um nível de excelência.

Os quatro duetos de amor são, sem dúvida, os pontos altos da obra, e o foram na Bastille, não apenas graças às excelentes interpretações dos dois protagonistas, mas graças, sobretudo, à perfeita interação entre eles, à autenticidade que conseguiram imprimir às cenas. No primeiro dueto, Ange adorable, uma valsa, quando se conhecem, dançando, durante o baile, foi especialmente feliz a direção de Jolly, que colocou os dois jovens bailando, suas mãos se aproximando sem que se tocassem. E Roméo surgiu, de repente, diante de Juliette, logo que ela terminou de cantar Je veux vivre.

Jolly utilizou como cenário a escadaria do Palais Garnier, colocando, assim, a Opéra Garnier diante da Bastille. Nas entrevistas e no programa, ele justifica isso como parte dessa união de contrários, o que parece não fazer muito sentido — as duas casas não se opõem, mas são parte da mesma instituição. Temos, no entanto, um cenário grandioso, com a escadaria, que se presta bem à trama. Como o Globe Theatre, o cenário de Bruno de Lavenère tem um ambiente mais elevado (como o balcão, onde Juliette brilha como o sol), que representa um espaço, digamos, celeste; um ambiente “chão”; e um ambiente inferior, onde ficam os mortos, criado sob o balcão — lá ocorrem o casamento, a noite de núpcias e, claro, a morte, bem como havia cantado Juliette logo no primeiro ato: Que le cercueil soit mon lit nuptial! Alguns exageros no cenário, nos figurinos e na coreografia? Sem dúvida, mas a ideia geral funcionou muito bem, e houve momentos de real beleza e poesia.

Para o ótimo resultado do espetáculo como um todo, também contribuiu o bom nível dos cantores comprimários. Dentre estes, merece especial destaque o Stephano de Marina Viotti, dona de um belo timbre e de um canto ágil, embora tenha faltado certa masculinidade a seu personagem. Saíram-se muito bem, também, Jean Teitgen, que apresentou um Frère Laurent austero e com voz imponente, Sylvie Brunet-Grupposo como Gertrude, Thomas Ricart como Benvolio, Maciej Kwaśnikowski como Tybalt, Sergio Villegas Galvain como Pâris e Jérôme Boutillier como o Duque de Verona, para citar os principais.

A interpretação de Laurent Naouri como Capulet pareceu ter evoluído entre os dias 26 de junho, quando foi gravado o vídeo (ainda disponível na France TV) e 12 de julho: se no vídeo o seu fraseado estava silábico, com som opaco, no dia 12 esse problema se restringiu ao início, na cena da festa, quando estava com máscara e tendo que vencer uma orquestra mais densa. Cenicamente, porém, pareceu não ter conseguido se adequar bem à movimentação proposta por Jolly (a menos que a intensão do encenador tenha sido ridicularizar o pai de Juliette – hipótese que, de certa forma, é reforçada pelo figurino). Também Florian Sempey, o Mercutio, embora com voz imponente e boa movimentação cênica, truncou um pouco o seu fraseado e empurrou a voz, provavelmente preocupado em se fazer ouvir no teatro, que nada tem de pequeno — preocupação desnecessária, porque a sua voz passava facilmente pela orquestra.

O maestro italiano Carlo Rizzi, a quem coube a direção musical dessa ópera francesa, na França, com direção cênica francesa e elenco predominantemente francês, extraiu da orquestra da Opéra de Paris uma sonoridade homogênea e fluente, com todo o contraste entre os momentos de sutileza e de grandiosidade, e, principalmente, com o lirismo que a música de Gounod exige. Em momento algum os cantores foram encobertos pela massa orquestral.

A qualidade do coro da Opéra, preparado por Ching-Lien Wu, deu um brilho especial ao espetáculo, com sonoridade perfeitamente timbrada, como um só corpo formado por várias vozes, mas não é somente de um belo som timbrado que é feito um bom coro: a sonoridade se adaptava às situações. No momento em que Juliette, caso não tivesse “morrido”, iria se casar com Pâris, a sonoridade do coro mudou totalmente, conferindo certo tom caricato ao canto – ali, eram os convidados de Capulet para o casamento.

A julgar por esse Roméo et Juliette, a Opéra de Paris está conseguindo achar um caminho para solucionar o problema de público que vinha enfrentando. Com bom elenco — ótimos protagonistas — produção grandiosa, clássica, mas com toques modernos (apesar de alguns elementos de gosto discutível), e uma obra de repertório ausente da casa há décadas, a Bastille lotou, ao menos nas últimas récitas — eu tinha a intensão de ver o elenco alternativo, no dia 15, mas não pude, pois os ingressos estavam esgotados e havia longa fila de espera.

Após a récita do dia 12, a última com Dreisig e Bernheim, a Bastille inteira se levantou para aplaudir os dois protagonistas. Uma merecida homenagem!

 

 


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