L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Mahler klimtiano

di Alberto Ponti

Per il Giorno della Memoria, Fabio Luisi presenta con l'OSN Rai Un sopravvissuto di Varsavia di Schönberg (voce recitante Francesco Micheli) e la monumentale Settima del compositore austriaco

TORINO, 26 gennaio 2023 - La Settima, tra le grandi sinfonie senza voci di Gustav Mahler, presenta lo 'standard' esecutivo meno definito, a tal punto che, tra l'interpretazione di un direttore e di un altro, pare a volte di ascoltare un diverso pezzo. Lo stesso fenomeno non accade, ad esempio, con le altre due sinfonie (Quinta e Sesta) con la quale è strettamente apparentata, dove invece la discrezionalità della bacchetta, pur innegabile, conduce a risultati più omogenei. Basti mettere a confronto la Settima di Abbado con quella di Bernstein o quella di Solti per rendersene conto. Si può a ragion veduta parlare anche della Settima di Fabio Luisi, cuore del programma del concerto di giovedì 26 gennaio all'auditorium 'Arturo Toscanini' che cadeva a ridosso del 'Giorno della Memoria' e alla cui ricorrenza era dedicato. Se Mahler, ebreo convertito al cristianesimo e scomparso nel 1911, non subì, per ragioni puramente temporali, persecuzioni in vita (nonostante la sua musica, proprio per le origini del compositore, sia stata in seguito bandita dal regime nazista), altrettanto non può dirsi per Arnold Schönberg (1874-1951), costretto a fuggire negli Stati Uniti a causa delle discriminazioni razziali introdotte nella Germania hitleriana. La scelta di aprire la serata con il breve ma intenso monologo per voce recitante e orchestra Un sopravvissuto di Varsavia op. 46 scritto nel 1947 dal musicista austriaco è dunque scelta, se non troppo originale, del tutto legittima e azzeccata. Luisi si dimostra concertatore analitico, attento a valorizzare i dettagli della caleidoscopica grafia schönberghiana nell'accompagnare dapprima il drammatico racconto del narratore Francesco Micheli sul rastrellamento nel ghetto di Varsavia e poi il coro maschile Shema Ysroel dei condannati al massacro, intonato per l'occasione dai componenti di un'autentica ed eccellente istituzione subalpina quale il Coro Maghini, guidato dal sempre inossidabile Claudio Chiavazza.

Senza nulla togliere alla breve pagina dell'inventore della dodecafonia, che ha il merito nella sua scarna spietatezza di colpire con un pugno nello stomaco l'ascoltatore condensando in una manciata di minuti gli orrori dell'olocausto, l'attenzione della platea è tutta rivolta, e non poteva essere altrimenti, alla sinfonia mahleriana. Il pubblico, anche giovane, è folto e concentrato. Sarà che dopo di anni di ristrettezze provocate dal covid quando, per il necessario distanziamento tra gli esecutori, una sinfonia di Mozart o di Haydn con 40 elementi sul palco era il massimo organico in cui ci si potesse imbattere, ora le partiture colossali con un centinaio di strumentisti hanno un richiamo particolare e non par vero assistere alle lussureggianti manifestazioni di potenza sonora e colore che, nei momenti di peggior sconforto, avevamo immaginato di rinviare a un futuro assai lontano.

La Sinfonia n. 7 è forse il brano più klimtiano di Mahler, nel suo pulviscolo costituito da infiniti brandelli di idee, alcune banali altre di bellezza assoluta, nessuna delle quali pare prevalere se non in illusori episodi tosto messi in discussione dall'incalzare di altri motti, sibili, incisi, fischi, figurazioni ostinate di ottoni e timpani, agitarsi di campanacci. Sono componenti dell'universo mahleriano rintracciabili con facilità pure altrove, ma mai come in quest'opera tendono a raggiungere una tensione di accumulo quasi insostenibile, un continuo brulichio privo di un'illusoria stabilità, con l'orecchio che si smarrisce affascinato in mezzo alla selva di suoni alla stregua dell'occhio di fronte al precario equilibrio del girasole del sommo pittore viennese, con la corona di petali gialli che incombe, astro supremo, sulla montagna di foglie e fiori che minaccia all'apparenza di precipitare. O di fronte alle rapaci mani della seconda versione di Giuditta, terribili e affascinanti al pari dello spettrale tema di danza che irrompe inaspettato nel trio dello Scherzo indicato 'come un'ombra' in partitura.

Fabio Luisi dipana in maniera eccellente l'intricata matassa dell'immenso pezzo. Il primo movimento, Adagio – Allegro risoluto, dove le apparenze formali sono maggiormente rispettate con un'alternanza tra i due motivi principali, è teso come una lama d'acciaio. Nessuna indulgenza è lasciata ai lontani residui di romanticismo dell'introduzione, con il canto del corno tenore ripreso dai legni e dai violini, staccato con pulizia e un'asciuttezza di suono, sulla scansione vigorosa dell'accompagnamento dei bassi, in inesorabile e fatale pianissimo, che mette a luce la natura di sincera parodia del tempo passato. Siamo nel 1904 ma, sotto la direzione di Luisi, ci si sente già in pieno Novecento. Gli interventi di flauti e ottavini, i rauchi squilli dei corni, le staffilate delle percussioni sono preparati e condotti in porto con chirurgico, tagliente rigore. Nella chiusa, nel franare improvviso e violento verso la tonica con un salto discendente dell'intera l'orchestra, ci assale l'impressione di aver assistito a una rappresentazione con protagoniste pure idee, istinti primordiali: passione, estasi, sofferenza, rabbia, stanchezza, quiete. La musica di Mahler non necessita di scena, ha il privilegio e l'impronta dei grandi autori teatrali, contiene in sé il gesto scenico, perfetto e compiuto.

All'insegna di maggiore amabilità nella lettura di Luisi sono i successivi tre tempi centrali, due Nachtmusik che incorniciano il già citato Scherzo, misterioso ma non privo di grazia fin de siècle. La continua instabilità non solo del maggiore e minore ma della stessa tonalità d'impianto, l'impiego di suoni caratteristici, culminanti nella chitarra e nel mandolino della Nachtmusik II (Andante amoroso), hanno qualcosa del ripensamento nostalgico della perduta età dell'oro, dello Strauss imminente del Rosenkavalier.

L'Orchestra Sinfonica Nazionale gioca con esatta leggerezza tra le pareti delle stanze di vetro erette da Mahler, è un piacere sentire il dialogo delle prime parti, ora cristalline ora venate nel fraseggio da una vena di sottile malinconia, sotto lo sguardo autorevole ma affettuoso proveniente dal podio, con le mani del maestro intente ad estrarre le gemme migliori dalla miniera di una scrittura con pochi eguali in quanto a raffinatezza.

Anche il Finale, nel recupero di una forma desueta come il Rondò tanto amata dal compositore, si pone nella scia della rievocazione di un'innocenza remota, e di conseguenza irraggiungibile . E' questo uno dei cardini della poetica mahleriana, interpretato da Fabio Luisi senza nulla concedere all'andamento un po' grossolano di taluni passi ma spronando l'orchestra a un virtuosismo a briglie sciolte cui si perdona volentieri qualche piccola smagliatura in una sinfonia che è un'autentica maratona per ogni esecutore. Entusiasmo alle stelle per un titolo che, nel suo volgersi ora indietro ora avanti rispetto alla propria epoca, ben invera il fondamento della memoria. In Mahler, nato ebreo e morto cristiano, e nelle sue opere al crocevia di due secoli la memoria altro non è, per dirla con le parole di Arnold Schönberg nel cui nome si era aperta la serata, 'ciò che è dimenticato ma che è sempre presente'.


 

 

 
 
 

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