L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Zarathustra va di fretta

di Alberto Ponti

Doppio debutto alla Rai per il direttore Petr Popelka e la pianista Marie-Ange Nguci con un impegnativo programma incentrato su Mozart e Richard Strauss passando per il dodecafonico Dallapiccola

TORINO, 16 febbraio 2023 - Poche centinaia di metri, un migliaio di passi separano a Torino piazza Carlo Alberto, teatro nel gennaio 1889 del notissimo e mitizzato episodio del crollo psichico di Nietzsche con l’abbraccio al cavallo maltrattato, dall’auditorium di via Rossini dove la sera dello scorso giovedì 16 gennaio è risuonato l’Also Sprach Zarathustra che Richard Strauss trasse nel 1896 dal libro del conterraneo filosofo uscito appena un decennio prima. Sono suggestioni e nulla più dal momento che Nietzsche, già piombato nelle tenebre della follia, non poté ascoltare la veste sonora della propria opera, e chi sa poi se l’avrebbe sul serio apprezzata. La manciata di composizioni cameristiche e vocali del pensatore tedesco, che nutrì soprattutto in gioventù ambizioni anche di natura musicale, sembrano piuttosto andare nella direzione di un gradevole, convenzionale e tranquillo romanticismo. Nulla a che vedere col proprio pensiero della maturità, che fornisce invece a Strauss materia per uno tra i suoi maggiori poemi sinfonici, forse quello più di altri proiettato verso il futuro, l’höhepunkt, la vetta raggiunta di slancio della prima parabola giovanile di autore orchestrale. Di fatto Zarathustra è un lavoro difficilmente replicabile dal punto di vista della scrittura dove convive, accanto alla strepitosa tecnica compositiva e in forza della stessa, un’ispirazione di assoluto valore.

Richard Strauss negli ultimi anni del XIX secolo era imbattibile su questo campo. Nessuno era in grado di scrivere meglio di lui per la grande orchestra. L’ambizione e il desiderio di affermazione sono fortissimi tra gli artisti e non stupisce che parte della rivoluzione musicale novecentesca nasca in ambito austro-tedesco come reazione alla tradizione tardoromantica di matrice straussiana nella ricerca di nuovi spazi di consenso, non solo fuggendo confronti troppo diretti col modello di riferimento ma sviluppando nuove strade ed esplorando territori ignoti.

Il giovane direttore boemo Petr Popelka, ospite per la prima volta alla Rai, affronta la partitura con entusiasmo, staccando tempi molto veloci, evidenti già nella celebre Introduzione, utilizzata in ambito cinematografico da Stanley Kubrick, al termine della quale l’accordo di do maggiore tenuto dell’organo si avverte e si estingue immediatamente, appena un attimo dopo il fortissimo di tutta l’orchestra, meno di quanto scrive Strauss (una intera mezza battuta di 4/4). L’effetto grandioso viene, con irrisolvibile ambiguità, potenziato e sminuito a un tempo. Qui si entra nel soggettivo. Prendete d’altronde cento registrazioni di Zarathustra dagli albori del disco ad oggi e non troverete questa nota interpretata due volte allo stesso modo. Tale atteggiamento non pregiudica l’aspetto timbrico dell’esecuzione, assai curato con tutti i passaggi solistici nel giusto rilievo, a cominciare dal primo violino Alessandro Milani nell’episodio Das Tanzlied (‘Il canto della danza’), e poi gli sfarfallii dei fiati, cesellati sempre con la massima precisione, gli arabeschi cromatici di violoncelli e contrabbassi nella complessa fuga de Von der Wissenschaft (‘Della scienza’). Ogni linea melodica ha il corretto risalto, dal registro degli ottoni, impalcatura di gran parte del pezzo, fino allo stratificato intreccio di motivi che si richiamano tra loro da una sezione all’altra del poema secondo i dettami del leitmotiv. L’ottimo complesso della Rai ne esce, sulla distanza, lievemente provato. Gli ultimi accordi acuti dei flauti e degli oboi non si stagliano, sopra i pizzicati quasi impercettibili degli archi, con la brillantezza luminosa di mezz’ora prima pur dipingendo una poetica aura crepuscolare che ben si addice alle battute terminali del capolavoro (Das Nachtwandlerlied ossia ‘Il canto del nottambulo’).

La calorosa ovazione della sala premia il coraggio di chi ha saputo osare, trasmettendo la propria visione personale di un titolo dall’enorme dispendio esecutivo. Discorso analogo vale anche per la prima parte della serata, con la pianista franco-albanese Marie-Ange Nguci, altro debutto nel cartellone dell’Orchestra Sinfonica Nazionale, impegnata a fianco di Popelka nel concerto n. 24 in do minore K491 di Wolfgang Amadeus Mozart. Non si può dire che la venticinquenne solista manchi di uno stile proprio, che viene fuori non tanto nella presentazione dei temi principali, dove la Nguci non si discosta troppo dallo stampo dell’ultima generazione di pianisti con studi internazionali di alto livello, quanto nei passaggi intermedi, nelle mezze tinte che caratterizzano la continua elaborazione dei tempi veloci di un’opera tra le più sperimentali dell’autore, non solo nella scelta della tonalità minore, condivisa con l’altrettanto drammatico concerto in re minore K466. Un tocco di estrema precisione e dolcezza, una scansione magistrale del fraseggio abbinate a un’innata musicalità caratterizzano la performance della pianista, che dà l’impressione di affrontare i punti di maggior impegno con disarmante semplicità, al servizio della scrittura mozartiana capace, mai come nel finale di questo brano, di dissimulare abissi di disperazione e malinconia dietro la costruzione perfetta di un tema con variazioni. Assai netta e squadrata, al limite dell’essenziale, è invece la direzione di Popelka, che, soprattutto nel Larghetto centrale, fa da contrappeso eccessivo alla poetica visione della solista, che emerge prepotente anche da una pagina di virtuosismo spettacolare quale la cadenza dal concerto per la mano sinistra di Maurice Ravel presentata in veste di bis e premiata dal sincero applauso di un pubblico impressionato.

Prima ancora si era ascoltato il breve Three Questions with Two Answers, composto tra il 1962 e il 1963 (ma pubblicato solo postumo) da Luigi Dallapiccola su materiale tratto dalla sua opera teatrale Ulisse. In apparenza il titolo parrebbe fare il verso a Charles Ives ma Dallapiccola era autore troppo colto per pensare a un richiamo irriverente alla Unanswered Question del maestro statunitense. Basato su un programma al limite del comprensibile e dell’involuto, con le tre domande (Chi sono io? Chi sei tu? Chi siamo noi?) che assurgono a influenzare la struttura musicale essendo rappresentate ciascuna da tre cellule tematiche di tre note, il pezzo ha il pregio, se ascoltato a mente libera senza tenere troppo conto delle indicazioni tecnico-letterarie del compositore istriano, rigoroso seguace della dodecafonia, di essere latore, nei cinque movimenti in cui è articolato, di un’espressione immediata e coinvolgente, degna di ulteriori frequentazioni. Il repertorio strumentale italiano del Novecento è ricco di gemme preziose oggi sconosciute o dimenticate (basti pensare, su tutti, all’impressionante corpus dei Concerti per orchestra di Goffredo Petrassi, coetaneo di Dallapiccola) e occasioni come la presente dovrebbero far riflettere su quanto poco sia valorizzata la produzione ormai storica a tutti gli effetti delle due/tre generazioni che hanno preceduto noi smemorati contemporanei.


 

 

 
 
 

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