L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Mahler da gigante

di Francesco Lora

La Sinfonia n. 2 “Auferstehung” di Gustav Mahler, diretta da Zubin Mehta al Maggio Musicale Fiorentino, è uno tra i concerti da ricordare per la vita, con Orchestra e Coro più che all’altezza dell’esorbitante aspettativa e dell’impressionante esito.

FIRENZE, 29 aprile 2023 – Al Maggio Musicale Fiorentino, dal 20 al 31 maggio, sta per andare in scena Otello di Giuseppe Verdi con la direzione di Zubin Mehta. Com’è avvenuto in altre occasioni quando si fanno le cose non a caso – per esempio alla Fenice di Venezia, nel 2019, con Myung-Whun Chung sul podio [leggi la recensione: Venezia, concerto Chung / Otello, 10-30/03/2019] – il capolavoro verdiano è stato fatto precedere da un prologo affilato: l’esecuzione della Sinfonia n. 2 “Auferstehung” di Gustav Mahler, quella che tra le altre cose, nell’ultimo movimento, cita appunto un’inconfondibile cellula motiva tratta dall’agonia del protagonista nel finale dell’opera. Annunciato e recensito, ecco uno tra i concerti da ricordare per la vita; lo si ripete e lo si ripeta: per la vita; e ha avuto luogo il 29 aprile scorso, nell’auditorium del Teatro del MMF. Annunciato, si diceva: l’esorbitante aspettativa e l’impressionante esito della lettura di Mehta, con l’Orchestra e il Coro del MMF, erano nell’aria dopo che il maestro, nella precedente edizione del festival, aveva licenziato, di Mahler, una Sinfonia n. 1 come nessuno oggi saprebbe più restituirla, ossia col virtuosismo di colori e con le fluttuazioni agogiche tipiche di una tradizione viennese non più tramandata ai giovani e risalente al compositore stesso, ai suoi collaboratori e allievi nonché alla scuola di Hans Swarowsky. Questa Sinfonia n. 2 secondo Mehta è il proseguimento esatto della “Titan” ascoltata l’anno scorso. A voler stringere le parole fino alla banalizzazione, la caratterizza l’assoluta imprevedibilità di suono e di passo: condotta a memoria dalla prima all’ultima sua nota, è il prodotto di un’assimilazione totale del testo. Intimamente totale e non cerebralmente maniacale: procede, cioè, come se l’idea musicale costretta sul foglio scritto tornasse a essere idea pura che diviene ascolto senza più passare attraverso i segni grafici; ogni frase, anzi persino ogni frammento della stessa, avanza con differenti e propri tempo, peso e tinta, sicché le parti strumentali stesse sfumano tra loro, rigettano il rigore del metronomo e la secca coincidenza verticale, si muovono come le mai meccaniche mani del pianista conversatore. Bisogna risalire a Leonard Bernstein per ritrovare, al cospetto di tale partitura, un pari superamento di qualsiasi vezzo o inibizione: si ascoltano qui allentamenti di spaventoso eccesso, ai limiti della tenuta dell’architrave orchestrale, cui corrispondono, onde riattestare il primo tempo, virtuosistiche cavalcate a passo sempre più serrato, inesorabile, vertiginoso; la spazializzazione del suono, il suo essere centrifugo – e narrativamente come – rispetto alle file dei professori, definisce veri e propri paesaggi, vulcanici o ipnotici, e supera la descrivibilità; ogni attuazione di Mehta risulta peraltro chiara, sincera, schietta, mai temperata nella comodità del calligrafismo, del tutto assente, e nell’abbacinare del virtuosismo, pur sfolgorante. Va da sé che i luoghi deputati per loro natura a far più incredulamente saltare l’ascoltatore sulla poltrona siano, per via della loro colossale stazza e del loro abissale argomento, il primo e il quinto movimento; il secondo, tuttavia, raddoppia la soggiogata ammirazione, con quella vaporosa cordialità la quale lo fa stare al primo movimento come Die Frau ohne Schatten di Richard Strauss starebbe al di lui stesso Rosenkavalier. Peccato, piuttosto, che il Lied in quarta posizione, esoso più che mai sotto Mehta di una pasta contraltile arcana e di un fraseggio ispiratissimo, debba accontentarsi della correttezza un po’ qualunque del chiaro mezzosoprano Michèle Losier, mentre il soprano è ancora una volta la luminosa, giovanile e sorridente Christiane Karg, ormai la titolare internazionale della sua parte in ogni “Auferstehung” che si rispetti. Quanto al Coro del MMF, risuona con gli armonici di un organo immenso: l’organo immenso che malauguratamente manca, e a dispetto delle sinfonie di Mahler in primis, da quasi ogni pur notevole sala da concerto italiana. Riferire, infine, della completa simbiosi tra la relativa Orchestra e Mehta, dopo oltre mezzo secolo di collaborazione innamorata, sarà come portare civette ad Atene: questo è stato un concerto da ascoltare a occhi chiusi per non fraintenderne le immagini uditive; quando si sbircia fra le palpebre, però, per verificare di non stare sognando, si vede che a ogni minimo gesto del direttore corrisponde l’attenzione venerante dei professori, la loro reazione memorabile pronta a ribaltare i toni del discorso, e si vede che quel direttore capace di infiammare la galassia mahleriana è nell’aspetto, per esemplare beffa dello spettatore, un signore di ottantasei anni compiuti proprio quella sera, esitante nel camminare, superbo sempre di braccio, con un gesto che in verità ha bisogno di uscire solo di rado dalla sagoma della schiena. Nel rimpicciolirsi, fa musica da gigante.


 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.