L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Da Mahler a Pfitzner tra Mäkelä e Thielemann

di Francesco Lora

Il ruolo di una capitale della musica nel mondo si misura non nelle situazioni straordinarie, ma nell’ordinario quotidiano: una normale domenica di metà dicembre, a Vienna, basta per ascoltare, a distanza di poche ore e metri, la Sesta di Mahler e Palestrina di Pfitzner, con schierati Klaus Mäkelä e Christian Thielemann, i Wiener Philharmoniker e Michael Spyres.

VIENNA, 15 dicembre 2024 – Pochi contenitori di musica sono più capienti di una domenica a Vienna: tra concerti, opere, operette, musicals e balletti, per non parlare di certe messe cantate che in Italia nemmeno ci si sogna più, inanellarne uno la mattina, uno il pomeriggio e uno la sera è un gioco da ragazzi, con una politica di prezzi e un’abbondanza di biglietti tali che nessuno può dirsi tagliato fuori. Se anche non si riesce a mettere insieme una bulimica quantità, rimane assicurata una qualità da capitale della musica nel mondo. Un esempio tra i continui possibili è dato da una domenica alla metà del dicembre scorso: dalle 11:00 alle 12:30, la Sinfonia n. 6 di Gustav Mahler nella sala grande del Musikverein; dalle 18:30 alle 22:45, Palestrina di Hans Pfitzner alla Staatsoper. Manca il terzo spettacolo, risarcito da una fetta di Fächertorte, da una di Annatorte – a chiederne una di Sacher si fa la figura dei turisti sprovveduti – e da una visita alla Cripta dei Cappuccini. Alle cinque ore nette di musica ascoltata ci si arriva però senza alcuno sforzo, con argomenti che si prestano al confronto tra i due spettacoli e i loro ingredienti.

Il concerto mattutino rientra nell’ambitissima stagione gestita in proprio dai Wiener Philharmoniker, e porta sul podio uno tra i più borbottati concertatori dell’ultima generazione, Klaus Mäkelä, il ventottenne e ubiquo finlandese che sta facendo incetta di ruoli direttivi apicali tra Oslo, Stoccolma, Parigi, Amsterdam e Chicago: mentre all’estero lo si viviseziona, in Italia è ancora poco conosciuto. La stima che egli riscuote dai Wiener è evidente: addirittura lo guardano, anziché eseguire a testa bassa, denti stretti e muso duro – se serve, lo fanno con spudorata eloquenza – una partitura della quale detengono la tradizione esecutiva. Quel ch’è certo, Mäkelä reca con sé tutta la tecnica e tutta l’analisi per chiarirsi degno di quell’orchestra rombante, di quel monumento sinfonico e di quell’uditorio esperto. Impressiona, per dirne una, la brutale e insieme caleidoscopica capacità di far sentire, con trasparenza e alla pari, ogni singola nota e ogni singolo timbro nei mostruosi accordi di nona e in ancor più dissonanti clusters: di rado si ha occasione di apprezzarli più pienamente espressi, e figurarsi poi se il materiale fisico è quello dei Philharmoniker.

L’evolvere di orizzonte agogico, dinamico e cromatico, lungo la sua conduzione, è abilissimo in quanto agilissimo: ricorda a ogni frase la natura di poema sinfonico implicito alla Sesta, dai soffusi edenismi, col libero rintoccare di campanacci, al bellico scoppio degli ottoni, nel sopravvivere della forma sonata. Appunto grazie a una visione colma di spunti – e invero più meccanica che psicologica – emergono aspetti maturi o ingenui o discutibili, ovvero oggettivamente inoppugnabili ma con l’effetto di contrariare qualche soggetto. Tre esempi macroscopici: l’Andante moderato è battuto con compiaciuta larghezza, quasi mettendo alla prova l’architravale tenuta di fraseggio dei Wiener; il medesimo brano, sulla cui posizione il pensiero dell’autore oscillò assai, figura qui al secondo posto anziché al terzo, negando così il conforto di una stasi prima del corrosivo ultimo movimento; in tale assuefacente escalation di giovanile tensione, rischiano infine di passare per innocue le più terrificanti esplosioni e persino i tellurici colpi di martello. A occhi chiusi si ascolta meglio: l’ipercinesia gestuale di Mäkelä dà infatti luogo a un distraente contro-spettacolo.

Un contro-spettacolo tutt’altro che distraente è invece il Palestrina serale, agli antipodi di Mahler, della Sesta e di Mäkelä. I Philharmoniker condividono numerosi professori con l’orchestra della Staatsoper, e chi assiste dall’alto dice di aver riconosciuto nel golfo mistico parecchie prime parti già impegnate nel concerto mattutino, compreso quel flebile primo violino atteso a dare un più energico contributo. Le differenze, come si diceva, sono però sostanziali. Il capolavoro operistico di Pfitzner, più recente di una dozzina d’anni rispetto alla sinfonia mahleriana, è un manifesto d’introverso e dichiarato conservatorismo, nel soggetto teatrale e nell’assetto musicale: il librettista-compositore s’identifica con una romanzata reinvenzione storico-poetica di Giovanni Pierluigi – a proposito: Pierluigi è il cognome – e intorno a lui costituisce un’improbabile istantanea sul Cinquecento italiano, sul Cattolicesimo (visto da un luterano) e sul ruolo in essi – anzi no: nel primo Novecento tedesco – della musica non degenerata. L’ascolto costa impegno ma una volta nella vita va fatto: tanto meglio, allora, se a dirigere è Christian Thielemann.

Quantomeno nelle sue interviste giovanili, Thielemann non esitava a dichiarare ammirazione, amore, assoluta preferenza verso Palestrina: ne ha del resto inciso i tre preludi in uno dei suoi primi CD per Deutsche Grammophon, e nella sua indimenticata tournée italiana del 2005 con i Münchner Philharmoniker propose gli stessi brani accanto alla Settima di Bruckner. Molti faranno ironia, al di qua delle Alpi, sul suo rapporto eletto con un’opera ideologicamente non neutra né di certo progressista; il sarcasmo non è del resto mancato intorno alla sua defezione dal nuovo Ring des Nibelungen alla Scala, per motivi di salute considerati poco credibili. Sta di fatto che nemmeno un quotidiano italiano è andato a cercare il diretto interessato – è uscita un’unica, cordiale, illuminante intervista su una testata di settore – e che alle recite viennesi Thielemann è comparso in evidente convalescenza post-chirurgica. Chi abbia fatto l’esperienza, nel 2024, della sua asciutta Frau ohne Schatten a Dresda, del suo vertiginoso Lohengrin a Vienna o del suo struggente Capriccio a Salisburgo, sa infine quale impareggiato musicista egli sia oggi nel contesto germanico.

E infatti il suo Palestrina è un capolavoro di naturalezza e scioltezza interpretativa nel saper disciogliere e rivivificare una partitura di per sé ingessata e farraginosa, al cospetto di un’orchestra in letterale, complice venerazione del podio, e con una mobile imprevedibilità di fraseggio, in adesione alla situazione drammatica, non meno sensazionale per lucidità narrativa: Pfitzner ha senso là ove a spiegarlo ci sia un Thielemann. Per l’occasione è stato rispolverato l’allestimento, del 1999, tutto firmato da Herbert Wernicke: recitazione curatissima e trasposizione al secolo XX (che stride però col pittoresco Rinascimento posticcio di Pfitzner). Un solo divo in locandina, ed è, nella parte protagonistica, un abnegatissimo e sfumatissimo Michael Spyres ormai passato all’opera tedesca. Eccellente il gioco di squadra, altrimenti, nella strabocchevole compagnia di canto: spiccano Wolfgang Koch come tormentato Carlo Borromeo, Günther Groissböck come carismatico Pio IV, Wolfgang Bankl come machiavellico Cristoforo Madruzzo, Michael Kraus come altero Cardinale di Lorena e Adrian Eröd come insinuante Conte di Luna.

Leggi anche:

Milano, Christian Thielemann / Staatskapelle Dresden, 08-09/09/2022

Vienna, concerto Thielemann, 13/10/2019

Salisburgo, concerti Eschenbach/Thielemann/Jansons, 19-21/04/2019

Dresda, Die Frau ohne Schatten, 13/05/2024

 


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