L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Poesia e istinto

di Antonino Trotta

Lingotto Musica saluta il nuovo anno con un concerto dedicato al romanticismo tedesco: ne sono protagonisti l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretta da Myung-Whun Chung e il violinista Sergey Khachatryan, carismatico interprete del concerto di Brahms.

Torino, 10 gennaio 2025 – Bastano davvero poche battute, talvolta, per misurare immediatamente la statura degli interpreti che quella sera si ha la fortuna di ascoltare. All’Auditorium Giovanni Agnelli di Torino, dove Lingotto Musica ospita i complessi dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, è la sola apertura del concerto per violino e orchestra in re maggiore di Brahms a preannunciare mirabilia.

Delicatamente sofferto, timidamente trionfale, condotto con quell’incedere solenne e marcato che fin da subito accende i riflettori sul respiro sinfonico della partitura, l’Allegro ma non troppo diretto – a memoria – dalla sapiente bacchetta di Myung-Whun Chung definisce, nel giro di pochi passaggi, i piani prospettici in cui articolare l’intero concerto. Innervato da una scrittura virtuosistica mai fine a sé stessa, in rottura con i canoni del concerto solistico romantico, l’op.77 di Brahms ha, per certi versi, le sembianze di una sinfonia concertante – specie il primo movimento –, in cui il violino non è mero protagonista assoluto, ma parte integrante di un dialogo fitto e serrato con l’orchestra.

Terreno d’elezione, a conti fatti, per un solista eccezionale quale Sergey Khachatryan, violinista armeno dall’impeccabile tecnicismo, capace di raccogliere, sviluppare, esasperare le idee che arrivano dal podio con raffinata sensibilità. Se ne ha prova immediata in quelle pagine dove la scrittura si fa più malinconica e rarefatta, siano esse gli squarci lirici del primo movimento o le lande desolate del magnifico Adagio centrale, in cui Chung ara il manto orchestrale per lasciare il violino solista aprirsi nella sua superba cantabilità. La bellezza del suono cavato senza la minima sbavatura, il nitore che l’articolazione reca in dono ad ogni arcata, il fraseggio che autorevole si fa strumento di un pensiero musicale profondo e dotto, il controllo straordinario dei colori e delle dinamiche, si avvicendano così in un violinismo carismatico che incanta e toglie il fiato frase dopo frase, incorniciato com’è da un’orchestra, magistralmente calibrata nei timbri, mai restia a concedere respiro né a sostenere, con la leggiadria di un alito di vento che fa volteggiare i petali di un fiore, il canto patetico e carico di charme. Certo, la brillantezza non manca là dove il vigore rusticano di quei modi ungheresi – Allegro giocoso– assediano il palco con ebbra gaiezza, ma Chung e Khachatryan, anche nel movimento finale, sembrano subordinare la vertigine virtuosistica a favore di un’esigenza drammaturgica più intensa e febbrile. Pescano ancora nel dominio nel poetico lirismo i bis che Khachatryan, applauditissimo alla fine del concerto, concede generoso alla platea festante: l’Allemanda dalla sonata n.4 di Eugène Ysaÿe e il canto tradizionale armeno Havoun Havoun (Gregorio di Narek), ennesimi altari su cui consacrare la classe di un artista dalle stupefacenti risorse.

Ha un taglio decisamente diverso la Sinfoniadi Beethoven che Chung e Santa Cecilia destinano alla seconda parte del concerto: meno riflessiva, rampante e istintiva, trionfo e tripudio di quell’energia indomita che abita ogni singola nota, la Settima si leva guizzante dal podio come animata da un’urgenza espressiva più viscerale e stringente. Fatta eccezione per il Trio dello Presto in terza posizione, dove l’euforia s’arresta per dar luogo a un’enfatica sospensione ritmica che si fa più evocativa e maestosa via via che il tessuto ritmico s’allarga – così da creare, di fatto, un suggestivo shock termico con la gagliarda ripresa dello Scherzo –, Chung imprime all’intera partitura un portamento eroico che si sostanzia in tinte fluorescenti e accenti infuocati, mai pronunciati con tono ieratico ma irradiata ovunque da una luce che, quando non abbaglia, scalda. Tra raffinatissime filigrane strumentali e picchiate agogiche per crescendo incendiari – nell’Allegro con brio conclusivo in molti hanno rovistato sulla poltrona per cercare la cintura di sicurezza –, manco a dirlo, questa Settima è anche la celebrazione del virtuosismo più iridescente, del gesto sorvegliato ma eloquente, dell’arte direttoriale, tout court, condotto ai massimi livelli. Ne deriva, in definitiva, una Settima che si muove tra impeto e disciplina, restituendo al pubblico l’essenza della forza beethoveniana: l’inesauribile capacità di trasfigurare, nella musica, l’energia in un’esperienza trascinante e universale.

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