L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Canne d’organo

di Antonino Trotta

James Conlon debutta felicemente al Teatro Regio di Torino con un interessante programma d’estrazione francese: s’impongono i complessi vocali del Teatro che nello Stabat Mater di Poulenc, in cui ben figura anche il soprano solista Masabane Cecilia Rangwanasha, siglano momenti d’ispirata bellezza.

Torino, 14 gennaio 2025 – Non v’è forma d’arte migliore della musica per esprimere la spiritualità in tutta la sua irrazionale e metafisica bellezza. Sempre animata da un ventaglio d’emozioni che spazia dal dolore più carnale al sublime rapimento dell’anima, la musica sacra si fa veicolo privilegiato di un dialogo intimo tra l’uomo e l’assoluto, tra il finito e l’eterno, molto spesso innescato da vicissitudini personali che segnano profondamente la vita dell’artista. È questo il caso dello Stabat Mater di Francis Poulenc, scritto nel 1950 in memoria dell’amico Christian Bérard, pittore e scenografo scomparso prematuramente, alla cui memoria il lavoro è espressamente dedicato.

Traendo ispirazione dall’antico testo liturgico che celebra il dolore della Vergine Maria ai piedi della croce, Poulenc intreccia in quest’opera di straordinaria caratura musicale il pathos della tragedia umana con la ricerca di una consolazione spirituale. Articolato in dodici numeri che alternano momenti di austerità e lirismo, contemplazione e tensione drammatica, lo Stabat Mater di Poulenc sembra a tratti reinterpretare la tradizione del canto gregoriano in virtù di sensibilità musicale raffinata e moderna: le frequenti modulazioni, i contrasti tonali, le progressioni cromatiche acuiscono qui, più che mai, il senso di sofferenza e di straniante mistero che innerva tutta la scrittura, facendo di quest’opera un autentico capolavoro.

Capolavoro a cui James Conlon, al debutto sul palcoscenico di Piazza Castello, e i complessi del Teatro Regio di Torino rendono preziosissimo servigio. Imprimendo alla direzione un passo austero e mesto, anche quando la scrittura potrebbe favorire un’escalation ritmica più marcata – si pensi al «Cujus animam» o al «Quis est homo» –, Conlon si dimostra interessato, fin dal primo pannello sonoro, ad accentuare l’atmosfera luttuosa e cinerea in cui versa il dramma evocato dal testo liturgico, conferendo all’intera esecuzione un’aura di intimità e di smarrimento di innegabile suggestione. L’Orchestra del Teatro Regio risponde alla bacchetta del direttore statunitense con virtuosa prontezza: nelle subitanee peregrinazioni timbriche che movimentano il flessuoso manto orchestrale, negli accenti scolpiti con teatrale nettezza in un fraseggio che solenne non cede mai alle sirene dell’enfasi narrativa, Conlon affonda le colonne portanti di una concertazione di toccante intensità, condotta all’estreme conseguenza là dove dal palco si leva sontuosa la voce del Coro. Compatti e maestosi come canne d’organo, i complessi canori della fondazione sabauda, istruiti dal maestro Ulisse Trabacchin, assurgono in quest’opera a protagonisti supremi, imponendosi, specie nei momenti a cappella, per la miriade di screziature dinamiche e coloristiche che impreziosiscono il sontuoso intreccio vocale. Anche Masabane Cecilia Rangwanasha spicca per simili qualità: timbro caldo e pieno, emissione solida e controllata, il soprano africano emerge negli interventi che Poulenc dedica al solista per la beltà dello strumento che governa e la delicatezza dell’espressione che ben si sposa col taglio interpretativo pensato da Conlon.

Sgomberato il palcoscenico dalle ugole, la seconda parte del concerto è dedicata alla rara Sinfonia in re minore di César Franck. La struttura tripartita, che sostituisce il consueto schema in quattro movimenti, e l’impiego del ciclo tematico, con il ritorno e la trasformazione dei motivi principali lungo tutto l’arco dell’opera, riflettono l’influenza di modelli tedeschi come Beethoven e Liszt. La scrittura orchestrale, densa e cromaticamente ricca, dipinge un universo sonoro che oscilla tra drammaticità e solennità, con aperture liriche di grande fascino e slanci eroici.

In questo contesto, James Conlon adotta un approccio energico e incisivo, enfatizzando con pathos i momenti di massima tensione del Lento – Allegro non troppo iniziale, dove l’alternanza tra il fuoco e le oasi di rarefatta tranquillità generano un moto emotivo di sicura presa. Già in queste contrapposizioni, il direttore lascia intravedere quella leggerezza e luminosità che pervaderanno l’Allegretto in seconda posizione, reso con estrema finezza stilistica. Notevole, in particolare, la cura dedicata alla sezione centrale, dove il gioco contrappuntistico emerge come un delicato ricamo orchestrale, a testimonianza della sintonia tra podio e orchestra. Con l’Allegro non troppo conclusivo Conlon ritrova lo slancio inziale, muovendosi con continuità e morbidezza tra gli episodi climatici che affastellano il movimento finale. Il lavoro sull’equilibrio sonoro tra le diverse sezioni orchestrali risulta impeccabile: le corde, ampie e avvolgenti, si sposano armoniosamente con i colori bruniti degli ottoni e le linee serpeggianti dei legni, creando un amalgama ricco di sfumature che con eleganza e souplesse conduce all’esultante parentesi conclusiva.

I fiori generosamente offerti dalla Signora Rita – qui al Regio un’istituzione, de facto, per quel tocco sciantoso che rende speciale ogni prima – e gli applausi di una sala festante decretano, meritatamente, il successo della serata.


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