L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

In orbita tra Berio e Holst

di Alberto Ponti

Il ritorno di John Axelrod sul podio dell'Orchestra Sinfonica Nazionale avviene all'insegna di due pagine spettacolari del primo e dell'ultimo Novecento

TORINO, 16 gennaio 2025 - Pochi pezzi del repertorio sinfonico sono capaci di gettare in modo convincente un ponte tra presente e passato, tra il linguaggio del nostro tempo e quello classico tradizionale, al pari di Rendering di Luciano Berio. Basata sugli appunti di una sinfonia cui Franz Schubert lavorava nelle ultime settimane di vita nell'autunno 1828, l'opera di Berio, composta tra il 1989 e il 1990, non solo è invecchiata benissimo al pari dei migliori vini (evento raro per moltissima musica degli ultimi decenni) ma rimane di notevole attualità per l'interrogativo cui l'ascoltatore si trova di fronte e che prende vita dal materiale originario: sarà una domanda scontata e retorica, ma è impossibile evitare di chiedersi dove sarebbe arrivato Schubert se la sua vita non si fosse interrotta a soli 31 anni. Un ragazzo, si direbbe oggi. È vero che, per rimanere nel nostro campo, molti grandi artisti non sono vissuti molto di più: basti ricordare Mozart, Mendelssohn, Chopin, Bizet. Eppure, pur nella brevità delle loro esistenze, non si può dire che non avessero raggiunto il culmine della propria maestria. Mozart avrebbe potuto donare all'umanità chissà quali altri tesori ma nessuno potrebbe affermare che un Don Giovanni o una sinfonia Jupiter siano perfezionabili. Chopin, adolescente, mostra già una maturità di stile che lo accompagnerà fino alla fine. E chissà se Bizet sarebbe riuscito a bissare una seconda Carmen? La parabola del genio di Franz Schubert pare molto più umana. La crescita e la maturazione che si avvertono nella sua produzione non gli impediscono di scrivere capolavori fin da subito ma la conquista della grande forma (sinfonia, sonata, quartetto che sia) avviene solo nell'ultimo tratto della parabola vitale e prelude a un futuro che non verrà. I due trii con pianoforte, che egli considerava le prime opere degne di non sfigurare nel proprio catalogo, non saranno un trampolino di lancio ma tappe di arrivo di un autore che, con un Winterreise alle spalle, prendeva lezioni di contrappunto con Simon Sechter ritenendo il suo talento migliorabile. Schubert non cambia la storia della musica ma, se il destino gli avesse concesso altri anni, avrebbe potuto cambiarla. Gli schizzi della decima sinfonia sono esempio evidente di un linguaggio non solo maturo ma anche personale e autonomo rispetto al modello beethoveniano che prosegue, in maniera più avanzata, sulla strada inaugurata dall'Incompiuta e dalla 'grande' sinfonia in do maggiore. Luciano Berio reagisce a questi stimoli non con la filologia di Brian Newbould, autore di un ammirevole ma discusso completamento, ma con fantasia di compositore e si limita a orchestrare i singoli frammenti collegandoli l'un l'altro da episodi di mano propria dove l'atmosfera di origine funge da spunto per incursioni nella più pura contemporaneità, instaurando un dialogo di estremo fascino tra epoche differenti. La direzione di John Axelrod, habitué di serate torinesi, è attenta al lato timbrico di una partitura che, appena svanisce la traccia schubertiana, si dirama in mille rivoli per effetto di una scrittura caleidoscopica e precisa nel minimo dettaglio dei singoli strumenti, prima di ricompattarsi nel flusso delle idee iniziali. Il rischio di accostare semplicemente quadri differenti secondo un'alternanza antico/moderno è in agguato, ma la bacchetta di Axelrod trova un equilibrio che tiene conto del differente peso sonoro dei vari momenti del pezzo. L'incisiva consistenza del possente unisono dell'Allegro che apre il primo movimento non si annulla così nell'evanescente liquidità che dilaga tra i rintocchi della celesta non appena termina l'esposizione. Anche per merito dell'Orchestra Sinfonica Nazionale, la cui frequentazione costante del repertorio recente ha plasmato una duttilità e versatilità di suono con pochi eguali in Italia, non si ha mai, nel trascolorare di un episodio nell'altro, l'impressione di una forzatura o di una cesura, bensì di una continuità in grado di tenere alta l'intensità emotiva. Dopo il volo nell'empireo del sublime Andante, paradigmatico è l'elaborato Allegro in terza posizione, scherzo e finale allo stesso tempo, dove l'alternanza tra il dettato di partenza e gli interventi di Berio diventa maggiormente marcata senza penalizzare la freschezza e la novità di uno sviluppo che trae dal confronto fra la creatività dei due compositori una serie di colpi di scena resi da Axelrod con plasticità quasi teatrale.

Una medesima teatralità, resa più esasperata da un dispiegamento di mezzi colossale (non a caso l'ultima esecuzione alla Rai sotto la Mole risaleva al 1957, sul podio nientemeno che John Barbirolli!), è alla base dell'interpretazione della successiva suite da concerto The Planets op. 32 (1914-16) di Gustav Holst. Qui il direttore texano di origine, da anni naturalizzato svizzero, si lascia tentare a tratti dall'effetto spettacolare, dai fortissimo al massimo dei decibel, in particolare negli episodi Mars, the Bringer of War e Jupiter, the Bringer of Jollity che, sia pur sugli opposti versanti della drammaticità e della rustica spensieratezza, prevedono picchi di sonorità con pochi eguali nella letteratura sinfonica. Si tratta di un peccato perdonabile, dal momento che negli altri episodi della suite Axelrod valorizza appieno la scrittura di un maestro dell'orchestrazione quale Holst, inventore di ricercatezze sconfinanti talvolta nella bizzarria (il celebrato dialogo tra ottavino e bassotuba in Uranus, the Magician) ma allo stesso tempo artefice di raffinatezze stilistiche assolute, come nei ritratti di Mercurio e Saturno, in cui ogni singola nota, nel turbinio di tempi veloci in forma di scherzo, viene distillata con nitore esemplare di gesto e di risultato. La rilevante prova tecnica offerta dall'OSN Rai ha il coronamento nel movimento conclusivo, dedicato al 'mistico' Nettuno con l'intervento di un coro femminile a bocca chiusa, per l'occasione impersonato con un prezioso cammeo dalle forze del Teatro Regio guidate da Ulisse Trabacchin.

Ovazioni scroscianti da parte di un pubblico numeroso richiamato dalla sontuosità del programma e lunghi applausi per tutti i protagonisti e le prime parti.


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