Mahler in sintesi svizzera
Al Teatro alla Scala, Lorenzo Viotti ha guidato la Filarmonica in una lettura della Sinfonia n. 6 che non dappertutto persuade e che tuttavia sempre interessa, per il suo volersi e sapersi mettere di traverso rispetto a una tradizione così fortunata da rischiare anche la cristallizzazione.
MILANO, 17 gennaio 2025 – Nella scorsa stagione del Teatro alla Scala, Lorenzo Viotti aveva mostrato maturità per affrontare, con una lettura misurata e prudente, un’opera che tra quelle mura ha un trascorso esecutivo responsabilizzante: Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi [leggi la recensione]. Per tre serate dal 13 al 20 gennaio, egli è ora tornato alla Scala per dirigervi il secondo dei sette concerti ordinari in cartellone, monograficamente incentrato su una grande sinfonia che dal capolavoro verdiano trae una fondamentale cellula tematica del primo movimento: la Sesta di Gustav Mahler (per chi non ci ha mai fatto caso: bisogna cercare la citazione della melodia su «E denno a te della clemenza il dono», atto I, scena e duetto di Amelia e Simone). Lettura, quella di Viotti, che non dappertutto persuade e che tuttavia sempre interessa, per il suo volersi e sapersi mettere di traverso rispetto a una tradizione così fortunata da rischiare anche la cristallizzazione (ma attenzione: proprio alla Scala, sei anni fa, la Sesta secondo Riccardo Chailly ha fatto scuola [leggi la recensione]). Prima cosa: la messa a punto del materiale sonoro, che con gusto molto francese e poco germanico insegue un disegno nervoso anziché pennellare un colore denso, il tutto con la morbida fonica e tipicamente italiana della Filarmonica scaligera; si potrà parlare di una sintesi svizzera, come la cittadinanza del concertatore? Seconda cosa: la sensibilità drammaturgica, per la quale Viotti, davanti all’oscillante decisione dell’autore, pone, contro la prevalenza dei colleghi, lo Scherzo in seconda posizione e l’Andante moderato in terza; si ottiene così un lungo, struggente, colmo riposo tra due enormi blocchi in sfiancante tensione se diversamente distribuiti. Terza cosa: la benvenuta temerarietà nel porre in dialettica inedita le sezioni grandi e piccole della partitura; non solo, per esempio, lo Scherzo si trova accostato al primo movimento, ma anche segue a esso quasi senza soluzione di continuità, mozzando il fiato; al contrario, il continuo avvicendarsi di indicazioni agogiche differenti è perlopiù gestito da Viotti non muovendo gradualmente dall’una all’altra, ma mettendo a nudo scarti senza preparazione, netti, violenti: nel primo movimento – circostanziato come Allegro energico, ma non troppo. Heftig aber markig (“Veemente ma serrato”): tutto torna – si procede con fraseggio secco e passo spedito fino a che l’oasi pastorale non si apre di colpo soffusa, con campanacci dai rintocchi più che mai liberi e irregolari. Poi: nello sterminato Finale i colpi di martello cadono tutti e tre, ma inesorabilmente aridi, rigidi, spenti, afoni; fanno più raggelare che sobbalzare. E insomma: molto scatto, scarsa tinta, abbondanti e amare montagne russe emozionali ma rara atmosfera poetica e un estremo riserbo espressivo. Si è così quasi agli eloquenti antipodi rispetto a un’altra Sesta di Mahler, precedente di un solo mese e recensita su queste pagine: quella condotta da Klaus Mäkelä, nel Musikverein, alla testa dei Wiener Philharmoniker [leggi la recensione]. Una sola caratteristica sembra accomunare nel loro approccio i due giovani concertatori, ed è un gesto direttoriale ben più energico di ciò che effettivamente arriva a tradursi in suono. Il trascorrere degli anni induce la parsimonia: per ora, un ascolto a occhi chiusi aiuta a vedere il vero musicale.
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