L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il pianoforte di Dostoevskij

di Luigi Raso

Fra repertorio russo e statunitense, Daniil Trifonov sbalordisce e trionfa al Teatro di San Carlo

NAPOLI, 6 febbraio 2025 - Tecnica impeccabile, tocco vario, uso magistrale del pedale, sterminata tavolozza timbrica, profonda ed intensa ricerca interpretativa: è Daniil Trifonov a inaugurare la quarta edizione del Festival pianistico del Teatro San Carlo, che proseguirà con Jean-Paul Gasparian (8 febbraio), Igor Levit (il 14 febbraio) e, in chiusura, Elena Bashkirova (il 16).

Una partenza di lusso per la rassegna, con uno dei più acclamati musicisti contemporanei, artista strabiliante per la bellezza e la cura del suono, il nitore del tocco, l’energia e la versatilità delle sue interpretazioni, per la simbiosi tra virtuosismo e sensibilità.

Il pianismo del giovane russo (è nato a Nižnij Novgorod, nel 1991), infatti, sbalordisce per il virtuosismo spontaneo, fondato su rapidità e precisione d’esecuzione, e per la trasparenza del suono. E il primo motivo di meraviglia è l’assoluto controllo tecnico: Trifonov plasma lo strumento al suo volere, esibisce - senza ostentare - le sue qualità; un’ampia gamma di dinamiche, un tocco dalla lucidità cristallina, nitido e incisivo che si traduce in un lussureggiante ventaglio di colori; la maestria nel pedale gli consente di creare timbri e sonorità dalle più varie sfumature.

Gli accordi iniziali della Sonata in do diesis minore op. posth. 80 di Čajkovskij (scritta nel 1865, pubblicata nel 1900) appaiono generati dal tocco energico di Trifonov; prendono forma dall’intensità della sua interpretazione. Il suono che domina la Sonata di Čajkovskij, come si noterà nel corso del concerto, è differente da quello che si ascolterà nei successivi brani in programma: pur nella levità del tocco, in modo particolare nell’Andante del secondo movimento, palpita quella incisività drammatica che il pianista fa serpeggiare per l’intera Sonata. Nella lettura di Trifonov ogni nota appare gravida di un senso di acuta sofferenza che genera una profonda intensità drammatica. Se il primo movimento, Allegro con fuoco, appare così perfetto nell’esecuzione da tradire qualche momento di sparuta meccanicità del discorso musicale, nel corso della sonata i tempi spediti, le dinamiche serrate, il tocco sempre più netto, fendente, come a voler tradurre in puro suono quella energica sofferenza di cui brilla la Sonata giovanile di Čajkovskij, regalano una lettura magmatica, vibrante e profonda.

Cambia repentinamente il mondo sonoro con i sei Valzer di Fryderyk Chopin scelti da Trifonov per questo concerto: le sue mani volteggiano leggere sulla tastiera, vi danzano con grazia. L’iniziale Valzer in mi maggiore op. posth. è un magnifico saggio di eleganza: il suono si fa aereo, luminoso; è crepuscolare quello del successivo Valzer in fa minore, op. 70, n. 2. Ad ogni brano abbina una tinta specifica e appropriata; opta per una tendenziale speditezza di tempi: Trifonov ha tecnica così sicura e salda che nessuna agogica può insidiare. Anche con tempi serrati, emerge sempre prepotente la fluidità del suo legato, lo scintillio dei rapidi arpeggi, il ricorrere elegante del rubato: emblematiche in tal senso sono le magistrali esecuzioni dei Valzer in la bemolle maggiore, op. 64, n. 3 e op. 64, n. 1, staccati con tempi così rapidi che farebbero temere almeno un’incrinatura, ma Trifonov è semplicemente perfetto, sovrumano nel dominio di ogni aspetto tecnico; strabiliante nel dare un’interpretazione bruciante dei Valzer di Chopin, vividi, tersi e tesi come non si erano mai ascoltati. Un capolavoro.

Aleggia l’immagine dell’ansia di vivere nella consapevolezza dell’inesorabilità del trascorrere del tempo nel successivo Valzer in la minore, op. 34, n. 2: Trifonov è rapito, pervaso da un’inesauribile voglia di volteggiare, di far vibrare vorticosamente il Valzer. Qui e ora non c’è spazio per estenuanti languori: il tempo stringe, il vortice della danza deve essere inarrestabile.

La concatenazione dell’esecuzione dei Valzer scelti dal pianista russo è senza soluzione di continuità; appare preordinata a costruire un’intensità lentamente crescente che raggiunge il suo apice nel Valzer in mi minore, op. posth.: qui Trifonov non fa deflagrare la tensione che ha fatto lentamente accumulare nei Valzer precedente, ma è magistrale nel condurla al suo climax, per poi lasciarla “sospesa”, non consumata dall’ultimo pezzo.

Sonorità novecentesche, potenti affondi sonori e distillazioni timbriche invece dominano nella Sonata per pianoforte, op. 26 (del 1949) di Samuel Barber. Quasi si stenta a riconoscere Trifonov come medesimo interprete della precedente Sonata in do diesis minore di Čajkovskij e dei Valzer di Chopin: il suo suono è lo specchio della straordinaria versatilità dell’interprete.

Nella Sonata di Barber il tocco e il suono del piansita si fanno ancor più nitidi, taglienti; il piglio interpretativo alterna energiche rudezze a raffinate rarefazioni.

Ma a dominare è una brutalità figlia del ‘900 musicale: del brano Trifonov ha una visione in chiaroscuro, inquietante per il rapido alternarsi di dinamiche contrapposte, per il ribollire di una ritmica muscolare, per la ricerca di un suono deciso e rotondo.

In chiusura si ritorna all’amato Čajkovskij della Suite da La bella addormentata, op. 66 nell’arrangiamento per pianoforte di Mikhail Pletnev: è questo il brano in programma, ad opinio di chi scrive, che meglio riassume ed esalta le caratteristiche tecniche e interpretative apprezzate nel corso della serata.

Innanzitutto, lo sfavillio timbrico: con Trifonov il suono si fa colore. Nella Suite dalla Bella addormentata il pianoforte, per la molteplicità dei timbri che si ascoltano, si trasforma quasi in un’orchestra.

Si resta ancora una volta sbalorditi dalla varietà di sfumature, dagli effetti dell’uso del pedale, dalla adamantina purezza del tocco, e dalla bruciante incisività del ductus musicale, dall’articolazione serrata, eppure mobile e varia, che si dipana attraverso i momenti che compongono la suite. Trifonov si abbandona al volteggiare funambolico e virtuosistico di Vision con la stessa intensità con la quale si (e ci) immerge nella profonda malinconia del successivo Andante, il cui tema ricorda l’Andante cantabile del II movimento della Sinfonia n. 5 del grande compositore russo.

L’Adagio che precede il Finale è costruito da Trifonov con un serratissimo crescendo di tensione, ma, pur nell’incessante intensificarsi delle dinamiche, il suo tocco conserva la sua pulizia: le note sono nitide, sgranate, l’incedere è sontuoso nell’esibizione muscolare di sonorità poderose che rivestono una profonda e bruciante espressività. Qui il pianismo di Trifonov sembra diventare lo specchio dell’aspetto da tormentato personaggio “dostoevskiano” dell'interprete stesso: al pari dei personaggi usciti dalla penna di Dostoevskij, il suo pianismo è screziato, profondo, a tratti insondabile e cupo, dalle molteplici sfaccettature, animato da una prepotente sensibilità che punta alla trascendenza.

È un trionfo, suggellato da tre bis: il primo è il suggestivo e sensuale Valse de Santo Domingo del compositore dominicano Rafael Bullumba Landestoy (1925 - 2018); si prosegue con Dolci sogni dall’Album della gioventù di Pëtr Čajkovskij e, infine, dai 24 Preludes, Op.28, il preludio n. 10.

Al San Carlo Daniil Trifonov trionfa sbalordendo.

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