L'enigma di Leningrado
Pietari Inkinen dipana con personalità la matassa di una pagina cruciale del Novecento.
TORINO, 6 febrbaio 2025 - La Settima sinfonia, in do maggiore op. 60, di Dmitrij Šostakovič appartiene a quel ristretto numero di partiture la cui estrema popolarità si presta a fraintendimenti. I malintesi sono innanzittutto di natura politica, con letture di tipo extramusicale che, se possono spiegarne nel 1941 la genesi di 'sinfonia di guerra' tesa a dimostrare la resistenza della città di Leningrado e della Russia intera sotto l'invasione nazista, sono meno efficaci quando pretendono di identificare specifici passi con descrizioni della realtà bellica. Sia esempio su tutti, il celebre e ossessivo crescendo sul tema di marcia ripetuto dodici volte a metà del primo movimento, spesso citato come rappresentazione in musica della brutale avanzata delle truppe di Hitler, pare che sia in realtà fosse inteso dal compositore genericamente come 'tema del male', applicabile in modo indifferente non solo alla figura del dittatore tedesco ma anche alla ferocia senza scrupoli dimostrata da Stalin in più occasioni, non ultima l'invio deliberato di immense schiere di soldati, destinati a morte certa, contro il nemico, confidando nel numero maggiore di forze umane di cui poteva disporre l'esercito sovietico. C'è di più. Il successo senza confini che la sinfonia ebbe fin da subito, a guerra ancora in corso, in Occidente, tanto da far guadagnare all'autore la copertina di 'Time', indusse molti commentatori, tra cui fior di musicisti del calibro di Béla Bartók, a guardarla con il sospetto riservato a un pezzo in certo qual modo troppo semplice, dalla spettacolarità sbandierata e in cerca di facili consensi. Questo fatto può spiegare il relativo declino cui, smarrita l'urgenza della contingenza bellica, l'opera andò incontro nei decenni successivi (nel ricordo di chi scrive, la pagina ancora negli anni Novanta del secolo scorso era quasi assente dai programmi dei concerti italiani), prima di entrare stabilmente in repertorio in concomitanza con la graduale (ri)scoperta, iniziata una ventina di anni fa, da parte del grande pubblico di buona parte dell'opera di Šostakovič. I tempi cambiano. Per scomodare un ultimo ricordo personale, nell'aprile 2002, quando i concerti dell'Orchestra Sinfonica Nazionale si tenevano ancora al Lingotto, alcune signore, all'uscita da una sala strapiena, esclamavano quasi scandalizzate: ' Terribile, terribile...' facendo il gesto di portarsi le mani alle orecchie, dopo avere ascoltato la Settima diretta nientemeno che da Kirill Petrenko. Giovedì sera sul podio non c'era Petrenko ma Pietari Inkinen, e un auditorium poco affollato ha riservato al maestro applausi calorosissimi ed entusiasti da parte di entrambi i sessi.
Venendo al lato squisitamente interpretativo la lettura di Inkinen, chiamato all'ultimo momento a sostituire l'indisposto Andrés Orozco-Estrada, è di alto livello e improntata a una visione personale. Non è facile trovare il giusto suono per la Settima, intrisa com'è di una componente 'cinematografica' che può risultare fuoviante, col rischio di tradursi in una sequenza di pannelli di forte effetto dove, nonostante il virtuosismo di una grande orchestra, viene a mancare il senso dello sviluppo tematico tra le sezioni in una partitura che invece, sotto tale profilo, rivela un numero impressionante di sottigliezze e raffinatezze che basterebbero da sole a inscrivere Šostakovič tra i massimi geni del Novecento. Fin dall'esordio, con il tema all'unisono degli archi che, a larghi intervalli, tocca nel giro di cinque note il primo, terzo e quinto grado della tonalità di do maggiore, ma evitando con cura il quarto, che compare solo due volte, sempre alterato da un diesis, nell'esposizione completa delle prime otto battute, Inkinen entra nello spirito della composizione con gesto propositivo, attento da un punto di vista tecnico, misurato nel dosaggio dei timbri, rispettoso del dettato dinamico, evitando di calcare la mano sulla presunta ispirazione 'epica' della melodia principale, che pare piuttosto rispecchiare la studiata ma artificiosa semplicità di un manifesto realista dell'epoca. Ne consegue che anche nei momenti di maggior enfasi non vi è l'esibizione di un pathos fine a se stesso ma si riescono a cogliere con relativa semplicità i frequenti rimandi tra i motivi principali e i sottomotivi che, ricorrenti sebbene sottoposti a sottili e continue variazioni, innervano il tronco del robusto e vasto tempo iniziale. Altro pregio del direttore finlandese è dato dall'esprimere la massima energia della musica senza mai raggiungere il limite delle potenzialità sonore dell'insieme, rimanendo parecchi gradini sotto la soglia del fragore in cui spesso scadono altri esecutori. Si aprono così, nel Moderato (poco Allegretto), sorta di Scherzo sui generis, e nell'intenso Adagio, spazi di autentica commozione, resi più toccanti dalla rarefazione di un suono che, in contrapposizione ai vigorosi ed espansivi episodi cui Šostakovič non rinuncia in nessuno dei movimenti, riesce ad assottigliarsi talvolta ai limiti della percezione mantenendo nondimeno una propria intatta fisicità.
Lo stesso Allegro non troppo finale, lungi dall'essere la retorica celebrazione della fiducia nel buon esito della battaglia (La vittoria, era il titolo dato in origine al movimento che l'autore decise poi di eliminare), si pone in veste di coronamento logico della grandiosa sinfonia, sintesi stringente di idee e stati d'animo contrastanti, che la bacchetta di Inkinen sa dipanare liberando tutta la forza insita nella scrittura di Šostakovič ma lasciando intatto il misterioso enigma sottostante. Noi italiani, seguendo le sotterranee ed impenetrabili affinità che legano i massimi ingegni tra epoche e luoghi lontani tra loro, la diremmo con il Manzoni: 'Fu vera gloria?'
Ovazioni al termine per l'intera orchestra e le sue prime parti, fedeli interpreti del pensiero proveniente dal podio.
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