Nel futuro per perpetuare il passato
Andrea Chénier chiude la stagione 24/25 del Teatro Regio di Torino e sigla il debutto sul palcoscenico sabaudo di Andrea Battiston nelle vesti di direttore musicale. Lo spettacolo di Del Monaco, dal bel segno visivo, si rivela tradizionale nella sua essenza nonostante l’ispirazione contemporanea. Valida la seconda compagnia di canto, in cui si fa notare il Gérard di Aleksei Isaef.
Torino, 22-28 giugno 2025 – Allestire un Andrea Chénier non significa soltanto confrontarsi con una scrittura, musicale e letteraria, densa, appassionata, talvolta verbosa, ma significa anche fare i conti con il peso ingombrante della Storia: una Storia che qui non fa da semplice sfondo a un teatro di passioni, ma irrompe nella drammaturgia con la forza di un personaggio a sé, imponendo codici visivi e simbolici da cui poi è difficile affrancarsi. La Rivoluzione francese e la Francia in generale, con il suo immaginario potente e riconoscibilissimo – la ghigliottina, i tribunali del Terrore, i contrasti sociali fra Ancien Régime e nuovo ordine repubblicano, senza parlare delle citazioni musicali che pur ricorrono frequenti lungo l’avvicendarsi dei quattro quadri – diventano, in questo titolo che incastona topoi melodrammatici in un dramma storico dalle tinte iridescenti, un prisma attraverso cui tutto deve, in un modo o nell’altro, passare. Metterlo in scena, pertanto, non è facile: occorre sapersi muovere con estro teatrale tra i rigidi paletti che il libretto pianta lungo tutto l’arco narrativo e soprattutto saper filtrare, con attenzione, tutti gli elementi che il testo richiama all’attenzione. Già perché alle spalle della fanciulla pronta al sacrificio d’amore e del poeta idealista destinato a un’eroica brutta fine, la decadenza del vecchio ordine e il fanatismo della risposta rivoluzionaria qui son descritte in maniera egualmente violenta e sommaria, quasi l’una fosse inevitabilmente la conseguenza dell’altra. Tant’è che nelle note di sala, Giancarlo Del Monaco, figlio del celeberrimo tenore qui chiamato a firmare la regia dello spettacolo che chiude la stagione 2024/2025 del Teatro Regio di Torino, afferma che «la rivoluzione è un’utopia e le utopie non funzionano mai, si ribellano contro il desiderio umano di un mondo migliore». Ci piace pensare che non sia sempre così, che la storia non sia solo una condanna a ripetersi, ma anche un laboratorio di possibilità, in cui perfino le utopie possano diventare motori di cambiamento autentico. Andrea Chénier, nel suo affresco lirico teso tra slancio e disincanto, ci ricorda quanto sia fragile il confine tra ideale e ideologia, tra poesia e potere. E forse proprio per questo, pur con tutte le sue ambiguità e il suo fervore drammatico, continua a parlarci: perché nella voce di quel poeta che osa sognare un mondo «redento nel pensiero», risuona, ancora oggi, l’eco di un’esigenza irrinunciabili dell’essere umano che sì, molto spesso, è animale cattivo, ma non manca nemmeno di splendide eccezioni.
Con queste premesse, lo spettacolo confezionato da Del Monaco, che nasce in una Francia prerivoluzionaria e si arrampica lungo i pioli del tempo per consumarsi in un mondo distopico dove, armati di kalashnikov, le milizie reazionarie seminano lo stesso terrore in bunker o campi di concentramento freddi e spinosi, mette in cortocircuito il passato e il futuro senza però una chiara intenzione di interrogare il presente. Così, in questo periodo sospeso che non è più storia ma nemmeno ancora allegoria, la narrazione rischia di trasformarsi in un esercizio di stile cupo e spettacolare – bellissimi, a onor del vero, sono le scenografie di Daniel Bianco e i costumi di Jesús Ruis, che però obbligano tre insostenibili intervalli da venticinque minuti – mentre i personaggi restano inchiodati a un pathos melodrammatico che rischia di apparire anacronistico proprio nel momento in cui si vorrebbe proiettarli fuori dal tempo. Di fatto, la costruzione dello spettacolo in sé, al di là dell’idea di fondo, che può piacere o meno, pecca, specie nel focus sui protagonisti, di qualche ingenuità, e sebbene le scene di massa siano tutte risolte al meglio, con dinamismo e precisione registica, la direzione degli interpreti principali appare talvolta più, incapace di restituire con freschezza e guizzo la complessità emotiva e ideologica dei personaggi. Un esempio su tutti, il duetto finale, cantato con lui e lei che manco si guardano: «Viva la morte insiem!», ma per ora teniamoci a debita distanza.
In buca, al suo debutto come direttore musicale, Battistoni guida i magnifici complessi del Teatro Regio di Torino con energia e nerbo, sbalzando il golfo mistico e i suoi eccellenti strumentisti, che in quest’opera godono di assoli di gran rilievo, quasi sempre in primo piano e qui e là con noncuranza dei volumi in dotazione al proscenio. La sua concertazione, viscerale, istintiva, tradizionale, privilegia la tensione continua, il vigore drammatico, la lucidità del gesto, pur sacrificando talvolta la finezza del dettaglio o la flessibilità agogica in favore di un affresco sonoro ampio, muscolare, fortemente comunicativo. Una lettura che non cerca l’equilibrio ma l’impatto, non l’analisi ma la trascinante forza emotiva.
Validi gli artisti schierati nella seconda compagnia di canto. Ad alternarsi con Gregory Kunde nell’impervio ruolo del titolo è Angelo Villari, lungamente applaudito a scena aperta e garante di una prova, se non eccezionale, rassicurante e professionale. Certo, il suo Chénier dimentica qui e là di essere poeta e palesa fin da subito un approccio “eroico” al testo che rimarrà una costante dell’intero arco narrativo, privilegiando lo slancio e il vigore declamatorio rispetto alla sfumatura, al sottotesto, alla malinconica inquietudine di un intellettuale travolto dagli eventi. Un'interpretazione solida, generosa, forse un po' monocorde, ma sempre presente anche nei momenti più esposti della scrittura. Nei dimessi panni di Maddalena di Coigny si alternano ben tre soprani: nella recita del 22, Maria Agresta fa valere tutte le sue qualità di musicista sensibile e raffinata, scolpendo una protagonista dolente e partecipe, che dosa con intelligenza il legato e il colore, e arriva a un’intensa «La mamma morta» giocata più sull’interiorità che sul puro effetto. Il suo canto, sempre sorvegliato, privilegia la linea espressiva alla forza – e là dove è richiesta, lo strumento mostra il fianco –, riuscendo così a dare al personaggio una credibilità teatrale che non fa solamente leva sulla maschera della vittima amorosa. Non è da meno Vittoria Yeo, Maddalena forse dal timbro più convenzionale ma certamente più pronta ad affrontare le asperità vocali del ruolo, che risolve con sicurezza tecnica e slancio drammatico. La sua linea di canto è solida, ben proiettata, e capace di tenere testa senza esitazioni ai passaggi più scomodi della partitura, come pure di modulare con sensibilità nelle pagine più liriche. Ne risulta un ritratto meno introspettivo ma più saldo, coerente con una visione del personaggio che privilegia la determinazione alla fragilità. Chiude il terzetto di protagonisti Aleksei Isaef, Gérard dall’interessantissimo materiale vocale: ottima pronuncia, fraseggio forbito e accento vibrante gli permettono di modellare la complessità di un personaggio lacerato tra ambizione politica e tormento personale.
Tra i comprimari si fanno notare Albina Tonkikh (Bersi) e Manuela Cluster (Madelon). Completano correttamente il cast Federica Giansanti (Contessa di Coigny), Adriano Gramigni (Rocher), Nicolò Ceriani (Fléville/Fouquier-Tinville), Vincenzo Nizzardo (Mathieu), Riccardo Rados (un "Incredibile"), Daniel Umbelino (L'abate poeta), Tyler Zimmerman (Dumas), Janusz Nosek (Schmidt). Ottima la prova del Coro del Teatro Regio di Torino, istruito dal maestro Ulisse Trabacchin.
Pubblico non numerosissimo, ma festante ad ambo le recite.
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