L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il volto oscuro della rivoluzione

di Alberto Ponti

Il capolavoro di Umberto Giordano chiude trionfalmente la stagione 2024/25 del Teatro Regio in un nuovo allestimento firmato da Giancarlo del Monaco. Protagonista un eccellente Gregory Kunde.

TORINO, 26 giugno 2025 - Se, per dirla con Fedele D’Amico, Mefistofele di Boito è il monumento a Vittorio Emanuele II in musica, Andrea Chénier di Umberto Giordano, nomen omen, rappresenta il monumento a Umberto I. Ogni arte è figlia del proprio tempo e sorge con immediatezza il pensiero che questa musica in grado di evocare passioni a forti tinte, arguta e sapiente nella scrittura eppure assai facile a comprendersi, vero condensato di ‘italianità’ da cartolina nonostante il soggetto francese, sia la colonna sonora ideale dell’epoca disinvolta che conobbe le prime grandi speculazioni immobiliari postunitarie, lo scandalo della Banca Romana, l’insorgere del trasformismo in politica. Tramontata la spinta risorgimentale, rimaneva l’affarismo. Sono suggestioni e nessuno intende insinuare che il compositore pugliese fosse un affarista della musica ma un certo modo di strizzare l’occhiolino al pubblico facendogli sentire proprio quello che corrisponde alle aspettative, l’enfatizzazione teatrale di numerosi passi, il continuo riecheggiare in orchestra di armonie che rivelano un’eccellente e spregiudicata capacità di assimilare idee altrui, testimoniano l’ansia di Giordano nel volere a tutti i costi cavalcare la tendenza più redditizia nell’ultimo decennio dell’Ottocento, afferente all’atmosfera di ambito ‘verista’. Nel caso specifico non aiuta il libretto, spesso debole nella scelta lessicale e farraginoso nel voler condensare, in un’opera di durata non così estesa, dimensione pubblica e privata della parabola umana e politica del poeta ghigliottinato durante la Rivoluzione francese. Insomma, una tra le peggiori creazioni di Luigi Illica che nello stesso 1896 in cui l’Andrea Chénier vide la luce raggiungeva ben altro esito nella drammaturgia della Bohème pucciniana, sia pur in collaborazione con Giacosa. Se ne dovette accorgere il barone Alberto Franchetti, a cui venne offerto per primo il soggetto, che preferì declinare l’invito girandolo al poco più giovane collega e facendone la fortuna.

Le premesse per un titolo ad uso e consumo di qualche rappresentazione, prima di venire dimenticato, c’erano tutte eppure, oggi come centotrent'anni fa, la musica del giovane Giordano funziona, continua ad inebriare e atterrire, affascina, coinvolge e commuove nel suo equilibrio continuamente sospeso tra sogni di grandezza e scontro con la dura realtà. Il merito è senza dubbio nella freschezza e nell’irruenza di molte soluzioni adottate dal giovane compositore, non ancora ventinovenne al momento della prima rappresentazione di questo ‘dramma di ambiente storico’, che, a scapito della maggiore raffinatezza e coscienza dei propri mezzi raggiunta nei titoli successivi, non riuscirà a bissare lungo tutta una lunga carriera, al pari di Leoncavallo e Mascagni, un trionfo di tale portata.

Il nuovo allestimento del Teatro Regio si avvale della regia di Giancarlo del Monaco, figlio del celeberrimo tenore Mario, e potrebbe definirsi double face: a un primo quadro di impostazione tradizionale seguono gli altri tre in cui si fa strada una visione del tutto contemporanea, con soldati in tuta armati di kalashnikov, mezzi a motore, bunker in cemento armato sfregiato da graffiti. Anche le opposizioni in termini di costumi e scene appaiono studiati in modo da creare il massimo contrasto, con i vaporosi merletti settecenteschi svolazzanti in un spazio luminoso interrotto, sulle battute terminali della prima parte, dall’irruzione dei miserabili capitanati da Gérard, che evocano già nel fare deciso e nelle armi spianate un piglio da guerriglieri. Da questo punto in poi, a prevalere sono ambienti tetri, solo talvolta rischiarati da luci di freddezza chirurgica (processo del terzo quadro), e vestiti altrettanto spenti, dove prevalgono il nero, colore della bandiera continuamente agitata dai rivoluzionari, il grigio, il marrone, il verde spento. La visione di Del Monaco è di chiara impostazione distopica ma riesce di una certa efficacia nell’attualizzare il dramma universale dell’ambizione umana che non esita a servirsi del potere arbitrario pur di raggiungere i suoi obiettivi di dominio, salvo pentirsene in fondo al cuore quando realizza di non aver conquistato la pace esteriore e interiore. Perché sarà vero che, per dirla con le parole del regista, ‘l’uomo è un animale cattivo’ ma è altrettanto indubbio che ‘una rivoluzione è un’utopia’ e ‘le utopie producono un disastro’. Un dilemma senza apparente via di uscita, destinato a riprodursi finché il genere umano abiterà la terra e che, proprio per questo motivo, continua a suscitare domande le cui risposte, in apparenza a portata di mano, in realtà non lo sono affatto. Il merito dell’allestimento consiste nel rinnovare tutti gli interrogativi connessi a tal insanabile questione, e, se ci riesce, un plauso va riconosciuto, oltre a del Monaco, anche alla squadra composta da Daniel Bianco (scene), Jesús Ruiz (costumi), Vladi Spigarolo (luci) e Barbara Staffolani (coreografia e assistenza alla regia).

Sul versante musicale, Andrea Battistoni, fresco di nomina a direttore musicale del Regio e chiamato ad inaugurare la prossima stagione con la rara Francesca da Rimini di Zandonai, non poteva trovare partitura più adatta alla sua personalità di Andrea Chénier dove a contare non è tanto l’impostazione di un disegno complessivo, che non c’è in origine, mancando nella scrittura di Giordano l’utilizzo di temi ricorrenti che vadano oltre la mera descrizione del momento drammatico, come ben evidenziato dagli acuti saggi di Marco Emanuele e Alberto Bosco compresi nel libretto di sala, quanto piuttosto la resa accurata del particolare. Sul punto, la sapiente mano di strumentatore dell’autore, abile nel tratteggiare con pochi accordi o un breve tema una situazione o uno snodo del plot, trova una spalla perfetta nell’istrionico temperamento di Battistoni, apparso in impeccabile sintonia con l'orchestra e la cui innata teatralità, talvolta a malpartito in opere di maggior ambiguità e complessità (come constatato di persona in concerti sinfonici diretti dal maestro veronese), pare fatta apposta per mettere in risalto i furori dello Chénier. Va altresì riconosciuto alla bacchetta lo sforzo continuo di mettersi al servizio del canto, che spesso assume la forma di un declamato variegato privo di eccessivi involi melodici, movimentando in maniera sapiente la dinamica orchestrale senza mai coprire le voci dei personaggi.

Chénier è ricoperto per l'occasione da Gregory Kunde. Il tenore statunitense, settantuno anni compiuti a febbraio, è autore di una prestazione eccellente per intensità e tenuta, considerando che Giordano richiede al protagonista un autentico tour de force, prevedendo una grande aria per ciascuno dei quattro quadri, oltre ai tre duetti e alle scene di insieme. Kunde, timbro drammatico e variegato, centra il ruolo del poeta-soldato fin dalla prima apparizione, guadagnandosi applausi a scena aperta con 'Un dì all'azzurro spazio'. L'intensità del fraseggio è coniugata con un'intonazione sempre calibrata e rotonda, a sua volta sostenuta da una facilità di estensione che sale all'acuto con la medesima facilità con la quale si immerge nelle note più basse della parte, con una naturalezza innata dietro la quale si intravede una tecnica e una preparazione di prim'ordine, vero segreto della longevità vocale e artistica di Kunde che, prima del duetto finale con Maddalena, suscita l'ovazione della platea in 'Sì, fui soldato' e 'Come un bel dì di maggio'.

Dapprima più contenuta nei momenti solistici, a Maddalena di Coigny il compositore riserva un'importanza crescente che trova il culmine negli ultimi due quadri, con l'unica vera aria a lei riservata, 'La mamma morta', che è diventata col tempo la pagina simbolo dell'opera. L'onere di affiancare Kunde tocca nella recita del 26 giugno a Yolanda Auyanet, soprano dalla voce luminosa e leggera tagliata alla perfezione per la festa ancien régime dell'inizio ma che tuttavia, quando le circostanze lo richiedono, riesce a rendersi gradevolmente increspata, reggendo il confronto con il vulcanico partner in entrambi i duetti con Chénier.

Chiude il terzetto dei protagonisti un Franco Vassallo in splendida forma come Carlo Gérard, che si impone sul palcoscenico nella giuste vesti attoriali e vocali connesse al suo ruolo di motore dell'azione: dagli accenti calorosi di 'Son sessant'anni, o vecchio, che tu servi' si ha, di quadro in quadro, un crescendo di energia e vigore per giungere a un 'Nemico della patria?!' dove il timbro baritonale si espande in profondità arricchendosi allo stesso tempo di sfumature di sapore quasi tenorile nelle puntature più acute.

Di valore anche i numerosi comprimari, a partire da Bersi (il mezzosoprano Mara Gaudenzi) e Madelon (il contralto Manuela Custer), cui sono riservati preziosi cammei, per giungere al mezzosoprano Federica Giansanti (Contessa di Coigny), al basso Adriano Gramigni (Rocher) e al baritono Nicolò Ceriani nella doppia veste del romanziere Fléville e del pubblico accusatore Fouquier-Tinville. La compagine di canto è completata dai tenori Riccardo Rados e Daniel Umbelino (rispettivamente un 'incredibile' e l'abate-poeta), dal basso Tyler Zimmerman (Dumas), dai baritoni Janusz Nosek e Marco Sportelli (Schmidt e maestro di casa) e dal soprano Eun Young Jang (una pescivendola).

Di grande valore si conferma infine, una volta di più, oltre all'orchestra che non sbaglia un solo colpo in una partitura in cui il minimo cedimento potrebbe risultare fatale, il coro del Teatro Regio guidato da Ulisse Trabacchin: in Andrea Chénier il compositore non gli riserva pagine troppo memorabili ma la sua presenza lungo tutta l'opera si rivela cruciale e puntuale nelle numerose scene d'insieme.

Pubblico non troppo numeroso, complice la torrida serata d'inizio estate che probabilmente ha spinto chi poteva a cercar refrigerio fuori Torino ma successo indiscusso e meritato per tutti gli attori di uno spettacolo di lunghezza forse un poco eccessiva, dovuta alla decisione di prevedere ben tre intervalli (uno per ogni cambio di quadro) per una durata complessiva di un'ora e un quarto di pause a fronte di due ore effettive di musica.

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