Tra polemiche areniane e problemi reali
di Luca Fialdini
Negli ultimi giorni si discute con toni accesi attorno a una polemica divampata in modo inatteso sull’Aida nell’allestimento firmato Zeffirelli in cui il ruolo del titolo, impersonato finora da Anna Netrebko e Liudmyla Monastyrska, presenta il trucco teatrale tradizionale: Netrebko e per estensione l’intera corte areniana sono stati taccati di razzismo e uso di blackface. Prima di addentrarci nell’argomento è vitale comprendere cosa sia con esattezza la blackface.
Si tratta di una maschera teatrale statunitense divenuta popolare nel corso dell’Ottocento. Uno dei primissimi esempi in questo senso è lo spettacolo di Joahann Gottlieb Graupner tenuto a Boston nel 1799 in cui si presentò con il volto annerito e suonando il banjo; nel dettaglio la blackface consiste in un attore bianco (in ogni caso di etnia caucasica) truccato in modo grottesco che interpreta un uomo di colore con tratti marcatamente stereotipati e con intento denigratorio. Questo è il nodo fondamentale perché la blackface non è solo pitturarsi la faccia di nero, significa ricercare un’interpretazione stilizzata di tipo parodistico con lo scopo di ridicolizzare l’uomo di colore. La fama di questa maschera è legata senz’altro alle sue apparizioni in spettacoli circensi o più in generale di varietà, ma soprattutto ai minstrel show: fenomeno fondamentalmente esclusivo del Nuovo Continente, acquisiscono forma compiuta attorno al 1830 come spettacoli di sketch comici di varietà con numeri musicali e di ballo in cui solitamente tutti gli attori coinvolti si presentavano in blackface. Senza spingersi più a fondo è sufficiente sottolineare che si trattava di spettacoli di stampo estremamente razzista e discriminatorio, restando in ogni caso un fenomeno legato alla cultura degli Stati Uniti.
Prendendo in esame il medesimo secolo – il XIX – spostandosi però in Europa bisogna porsi due domande, la prima è: la società nel suo complesso la si può definire razzista? La risposta più concisa è sì. La seconda è se anche l’opera lirica, prodotto di quella stessa cultura, sia razzista. In questo caso la risposta è meno scontata è molto più articolata e inizia con un no. Nonostante il melodramma sia figlio di una società in cui il razzismo è comunemente accolto e dove di certo non ci si fanno troppi riguardi per la sensibilità altrui su questo tema, curiosamente non si può parlare di effettivo razzismo.
Cercando di contenere la spiegazione di questo entro limiti ragionevoli, bisogna premettere che fino alla seconda metà dell’Ottocento l’opera, soprattutto quella italiana, era soggetta a un rigidissimo controllo da parte della censura che oltre a eliminare eventuali elementi o comportamenti contrari alla linea politica, tendeva anche a cassare qualsiasi argomento che potesse in qualsiasi modo offendere la sensibilità del pubblico (si pensi a tutti i finali lieti che venivano imposti agli autori, talvolta surrettiziamente), quindi anche nei casi – non foltissimi ma comunque rappresentativi – in cui si mettevano in scena personaggi di etnie non caucasiche il riferimento è sempre stato quello del buon selvaggio (Le cinesi di Gluck, Les Indes galantes di Rameau, Die Neger di Salieri dove, a dispetto del titolo, si accenna pure al matrimonio misto), una situazione che si può incasellare come stereotipo neutrale. La situazione si può efficacemente sintetizzare in questo modo: non esiste un’effettiva rappresentazione razzista delle etnie non bianche, piuttosto si tratta di immagini che, per quanto positive, non possono che risultare stereotipate. Questo tipo di rappresentazione è fisiologico se si pensa alla conoscenza dei diversi popoli che si aveva all’epoca e alla natura stessa dell’opera: in breve, degli abitanti all’infuori della "civile" Europa si sapeva ben poco, per non parlare degli abitanti delle propaggini estreme di Africa e Asia che costituivano un vero mistero (e lo erano ancora all’epoca di Madama Butterfly di Puccini, 1904); inoltre – ed è un passo di pari importanza – l’opera ha sempre vissuto di stereotipi, tanto nella rappresentazione degli strati sociali quanto dei soggetti e delle situazioni: non serve ricordare che il soprano e il tenore si amano ma il baritono si mette di mezzo! Lo stereotipo operistico va inquadrato come stilizzazione messa in campo per non doversi inventare di volta in volta situazioni sempre nuove ma anche per non creare incidenti per i motivi di cui sopra: una guida prevedibile ma che assolve alla propria funzione, insomma.
Quando si raggiunge l’opera della seconda metà dell’Ottocento e dei primi del Novecento si trovano anche passaggi assai più coloriti del consueto: recentemente la Scala non ha avuto di meglio da fare che censurare una frase del Ballo in maschera in cui il Giudice se ne esce con «S’appella Ulrica, dell’immondo sangue dei negri». Non è una frase detta en passant o di poca importanza: innanzitutto è particolare l’uso del termine «negri» visto che all’epoca quello impiegato per rappresentare lo stesso concetto era «moro», ma ha una funzione decisamente importante perché utile a connotare negativamente non chi la subisce ma proprio chi la dice, scoprendo fin da subito le carte in tavola. Un caso analogo è proprio la già citata Madama Butterfly in cui il colonialismo becero di Pinkerton è condannato in modo inequivocabile. Per la verità Puccini deve essersi reso conto che il libretto della prima versione dell’opera si spingeva davvero troppo oltre in questo senso e già dalla seconda versione diverse frasi poco felici sono state espunte, del tipo "va bene far capire di che pasta è fatto il nostro tenente ma non scadiamo nel razzismo". Un esempio è in atto I, scena I:
Pinkerton
(impaziente)
I nomi?
Goro
(indicando Suzuki)
Miss “Nuvola leggiera”.
(indicando un servo)
“Raggio di sol nascente”.
(indicando l’altro servo)
“Esala aromi”.
Pinkerton
Nomi di scherno o scherzo.
Io li chiamerò: musi!
(indicandoli ad uno ad uno)
Muso primo, secondo, e muso terzo.
Come detto, effettivamente si va sul pesante, ma l’obiettivo è sempre quello di fornire un’immagine esclusivamente negativa di Pinkerton. In qualsiasi altro aspetto dell’opera non esiste nulla che possa essere ricondotto ad atteggiamenti razzisti (per quanto nel 2022 dovrebbe essere ben più che noto).
Tornando alla questione di Aida, quanto detto fino a questo momento dovrebbe rendere chiaro che non si può parlare di blackface dato che quel concetto rimanda a una rappresentazione davvero specifica ma, oltre a questo, la questione razziale non viene mai toccata nel melodramma: il diverso colore della pelle è uno strumento drammaturgico per far comprendere la diversità di Aida rispetto al contesto in cui la troviamo, oltre che per ribadire l’appartenenza di una fazione diversa a quella dell’amato Radamés (Save the last dance in salsa operistica sotto questo aspetto). Una considerazione simile viene fornita da Gregory Kunde nel corso di un’intervista ad Andrea Maioli in cui, parlando di Otello – altro personaggio tacciato di essere una blackface – ragiona proprio sul valore del trucco nero in senso teatrale, che, beninteso, nulla ha in comune con le rappresentazioni largamente offensive dei minstrel show. Per lavare la coscienza degli Stati Uniti si rischia un fraintendimento importante e soprattutto la confusione di esperienze culturali che nulla hanno in comune; cosa ancor più grave di cerca di ficcare nel letto di Procuste una dimensione artistica che è veramente lontana, per non dire estranea, da questo tipo di concetti. Con questo non si vuole negare l’importanza della lotta per i diritti civili, per una migliore integrazione per il rispetto delle diverse identità e sensibilità o, peggio che mai!, metterla in ridicolo, ma proprio in virtù della sua importanza bisogna fare una distinzione fra questa e le idiozie da ipersensibilità: Aida non è un blackface così come non lo è Otello, imporre loro questa lettura significa imporre una visione monoculturale non meno ottusa di quella che si vorrebbe combattere.