L’Ape musicale

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NOTE MUSICALI di Francesco Pasqualetti

Immaginate una scena d’opera, una qualsiasi. Adesso provo a leggere nei vostri pensieri: quasi certamente immaginerete un palcoscenico, con uno o una cantante, che interpreta a voce spiegata una melodia memorabile, accompagnato/a dall’orchestra. Così avviene, e così si è sempre fatta l’Opera: sul palco il cantante interpreta la parte ed in basso, nascosta in buca, l’orchestra lo accompagna.

una cosa talmente evidente, che se adesso io vi venissi a dire che invece, nel Werther di Massenet molto spesso accade il contrario, ovvero che l’orchestra canta una melodia e che i cantanti in scena l’accompagnano, probabilmente mi prendereste per pazzo, ed io rischierei di essere frainteso. Eppure, ci crediate o no, Massenet in quest’opera utilizza esattamente questo schema. Ribalta ciò che per definizione è la scrittura d’opera e soprattutto, lo fa sempre nei punti più importanti. È come se l’orchestra dicesse o cantasse ciò che con la voce non è più permesso dire. Ciò che a voce non si può dire.

una melodia che viene da dentro, da sotto, da un luogo nascosto come una buca d’orchestra, nascosto come nell’anima. Che sia, quella melodia, la voce dell’anima? Che sia la voce d’un’anima, che cerca la strada per essere, di nuovo, ascoltata? Ma sto correndo troppo. Una tale, macroscopica, inversione dei ruoli, necessita una qualche spiegazione in più. In primis una motivazione ovvia, strettamente stilistica.

Massenet finisce di comporre il Werther nel 1887, dopo anni di scuola di bel canto e di melodia spiegata, è comune a tutti i compositori del periodo cercare altre e nuove forme di scrittura musicale. Anche per la musica di Puccini si utilizza spesso il termine di “canto di conversazione”, ovvero una forma intermedia tra l’aria e il recitativo, in cui si canta parlando, in cui la melodia si forma e segue la parola.

un espediente stilistico comune a tutte le opere di fine Ottocento e che va di pari passo con il consolidato superamento delle vecchie e rigide divisioni tra Aria, Recitativo, Duetto, Finale e così via. Questa risposta da buoni conoscitori della Storia della Musica potrebbe e dovrebbe essere più che sufficiente a placare la nostra curiosità.

Eppure… Eppure Charlotte canta il suo primo accordo perfetto (e forse la sua prima, vera melodia) sulla parola lacrime nel terzo atto, quando ormai non riesce più a trattenere le lacrime, la voce dell’anima per eccellenza. E Werther intona la sua memorabile aria, quella dove “il cantante canta e l’orchestra l’accompagna!” anche lui, solo nel terzo atto. L’aria è introdotta dalle parole tutta la mia anima è lì. Ovviamente ci sono delle eccezioni. Nell’aria di Werther del secondo atto, il tenore canta la melodia principale: una semplice scala ascendente. Sembra tutto normale. Sembra che la musica con il suo moto ascensionale esprima il desiderio del ragazzo di ricongiungersi al Padre, a Dio, al Paradiso, al Cosmo. Ma è l’orchestra a svelare che cosa rappresentino in realtà quelle scale ascendenti dall’apparenza così ingenua. Solo poche battute dopo, l’orchestra esplode in scale ascendenti, ma questa volta vorticose come le fiamme dell’inferno. Non è il Paradiso la destinazione finale del giovane Werther, ma la dannazione dell’inferno. Ed è di nuovo l’orchestra, dalla profondità della buca, a raccontarci questa verità. Nell’opera vi sono poi diversi temi ricorrenti, o leitmotiv, proprio come accade nelle opere di Wagner. Potremmo facilmente dare un nome a ciascuno di essi: il tema del Natale, il tema dell’amore impossibile, il tema della caduta, e poi il tema della lotta interiore: quella discesa cromatica in sincope, che unisce in sè tutto ciò che di doloroso il vocabolario musicale può offrire, per descrivere lo strazio di un Destino che ha deciso di non ubbidire alla nostra volontà e di non corrispondere ai nostri desideri. Uccidersi per amore. Ai nostri occhi contemporanei forse la gravità dell’atto appare meno radicale di com’è stata pensata in origine. Noi veniamo dal futuro e conosciamo bene il Romanticismo e tutto ciò che gli ha fatto seguito.

Ma Goethe scrive il suo Werther negli anni 70 del Settecento. Siamo nel pieno dello splendore del Regno di Luigi XVI e di Maria Antonietta. La rivoluzione è ancora lontana. Avete presente come andavano vestiti gli uomini di quell’epoca? Avete mai immaginato che un uomo vestito con abiti Luigi XVI possa pensare di suicidarsi, per amore? Massenet nelle sue lettere insiste più volte sulla necessità di avere abiti in stile Luigi XVI per il suo Werther. Già dalla sua prospettiva di uomo di fine Ottocento, l’abito, come immediata espressione di una cultura e di un modo di vivere, è un dettaglio significativo. Werther è forse il primo uomo a “spogliarsi” di quell’abito, è forse il primo “mito” di una nuova epoca. E l’epoca che apre è senza dubbio l’epoca che tutt’oggi, nonostante tutto, viviamo. Il vero protagonista della vicenda è citato nel libretto solo una volta. Non è Werther. Ha un nome ben preciso. Si chiama Destino.

Werther e Charlotte si amano. È chiaro a tutti fin dalla prima scena. Perché allora non possono amarsi? Non lo sanno neanche loro. Possono vedere solo che il Destino ha stabilito così, per loro. Nella nostra epoca contemporanea viviamo abbagliati dal mito positivista del “se vuoi, puoi” “se ci provi, avrai successo” col corollario che, se non hai successo è solo colpa tua, perché non ci hai provato abbastanza. Siamo tutti figli della nostra volontà di potenza. Questo pensiero ci stordisce e ci abbaglia. Se davvero vogliamo, possiamo tutto!

Il mito che ha segnato l’inizio della nostra epoca invece, ci parla d’una impotenza radicale dell’uomo davanti al Destino. Ma l’uomo contemporaneo, del Destino, così come della voce dell’anima, ha quasi perso la memoria.


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