L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Indice articoli

PER VEDERE DI NASCOSTO L’EFFETTO CHE FA
Giuseppe Martini
Cosa si può aggiungere su Un ballo in maschera, quest’opera così tornita in cui confluiscono come da un imbuto tutti gli argomenti cari a Verdi disciolti in quindici anni di teatro musicale (il destino cinico, la natura indifferente, il mistero dell’esistenza, l’impossibilità di coniugare felicità privata e concordia pubblica, la precarietà degli affetti, la ritorsione della vendetta e l’errore di chi pretende di correggere tutto questo)? Anche le tribolazioni vissute con la censura fanno parte di quei meccanismi: se Verdi non avesse rotto il contratto con Napoli per andare in scena a Roma, al posto di Un ballo in maschera cosa avremmo avuto? Una vendetta in domino, la versione rimaneggiata ambientata a Stettino? Oppure niente, un’opera messa in soffitta? Ma no, Verdi non avrebbe buttato via il lavoro fatto e, dopo l’Unità, avrebbe riproposto da qualche parte Gustavo III. E' infatti proprio su Gustavo III che si innesta il Ballo. Arrivato a Roma, Verdi azzera tutte le problematiche incontrate con la censura napoletana e torna alla prima fase di elaborazione del libretto, presentando ai censori romani questo, e non La vendetta in domino (versione già rielaborata per il gusto degli uffici di polizia napoletani). Non è il caso di deprecare le richieste della polizia romana, che portarono alla trasformazione del libretto del Gustavo III in quello bostoniano definitivo: è il gioco delle parti, era pur sempre lo Stato della Chiesa, e alla fine l’ambiente papalino si dimostrò molto meno schizzinoso di quello borbonico.

Sia chiaro, non esiste una partitura sopravvissuta di Gustavo III e la sua ricostruzione è un lavoro a tavolino di due musicologi, Philip Gossett e Ilaria Narici, sulla base di abbozzi e cancellature dell’autografo del Ballo nella forma cosiddetta “scheletro”, cioè quella elaborata solitamente dai compositori con linea del basso, parti vocali e appunti di strumentazione, prima dell’orchestrazione finale. Ma la cosa qui poco ci tocca. In questo allestimento non viene ripresa infatti la partitura di Gustavo III, di cui almeno un quarto della musica fu cambiato da Verdi per trasformarla nel Ballo, ma si compie un meno traumatico esperimento: sovrapporre cioè il libretto di Gustavo III presentato ai censori romani sulla musica definitiva di Un ballo in maschera, quello che Verdi avrebbe cioè messo in scena se non fossero stati richiesti ulteriori interventi. Lo si fa per provare a sentire il profumo dell’originale ambientazione svedese, che a Verdi piaceva così tanto perché ci si sente «un po’ di mondo e l’odore della corte di Luigi XIV»: una realtà cioè dove il sovrano è tutto, dove giocare e divertirsi è la regola principale di vita (qui si scherza con la magia nera perché l’idea è “feconda di piacer”, e lo sentenzia un paggio), ci si può permettere di sprezzare le minacce di morte e un capriccio d’amore ai danni del proprio migliore amico diventa più urgente del buon governo.

Qui perciò non si tratta di correggere Verdi, di stanare le sue vere intenzioni, di pretendere di saperne più di lui. Se lo si fa è per mera curiosità, per verificare come suona quel mondo svedese delle prime intenzioni verdiane sulla musica a tutti cara del Ballo, e vedere l’effetto che fa. E l’effetto che fa è come quegli strani sogni in cui si vedono persone che hanno la faccia diversa da quella che hai sempre conosciuto. Non ci si abitua subito a sentire Oscar che invece di cantare “Volta la terrea / fronte alle stelle” canta “Pallida pallida / volta alle stelle”, o il tenore che anziché “La rivedrà nell’estasi / avvinta di pallore” ci ammannisce un “La rivedrà ma splendida / d’angelico pallore”, anzi sulle prime il fenomeno sa di fiducia tradita, ma questo sarebbe il meno.
No, qui non c’è ancora l’invenzione verbale rocambolesca che Somma ha dovuto applicare alle richieste della censura romana. Riemerge anzi un suo verseggiare più largo di significati, più schietto e più metallico, in uno sgattaiolare di pugnali nell’ombra e un timore corrente di sangue, e soprattutto in una continua commistione fra sacro e profano che non poteva essere tollerata dalla censura papalina, è comprensibile.
Anche se poi, guarda qui, guarda là, a quei pii censori è sfuggito il clamoroso “s’indìa”, una delle acrobazie verbali di Somma per dire quanto era divino far l’amore con Amelia. Se ne fossero accorti, matit a blu a doppia sottolineatura. Ma è chiaro: erano tutti presi dai due versi successivi in cui si racconta che Amelia, questa campionessa delle lenzuola sublimate, “simile ad un candido / cherubino brillava d’amor!”. Eh no, il cherubino a letto proprio non poteva andare. Nel sostituire per il Ballo queste ardite figure retoriche, Somma ha perso un po’ di estro, e forse anche un po’ di pazienza. Non potendo essere un cherubino, Amelia sarà destinata a brillare sul seno del marito, una scelta lessicalmente corretta ma visivamente ambigua, giacché si allude a corpi discinti di sesso diverso. In modo analogo, l’“angelico pallore” della sortita di Gustavo diventerà “raggiante di pallor” in quella di Riccardo, con la ben nota osservazione a traino che se si è pallidi non si può essere granché raggianti – mentre opportunamente un angelo può ben esser pallido.
In altri casi le riprovazioni della censura si capiscono solo se si fa mente locale al contesto. Quando Ulrica canta “Le chiavi del futuro / nella sinistra egli ha” riferendosi a Satana, lì per lì non sembra niente di che: ma in effetti non solo a un romano del 1859 il pensiero sarebbe corso alle chiavi di San Pietro e al rischio di un increscioso parallelo col pontefice.
A parte altre scelte nel libretto di Gustavo III , i cui emendamenti nel Ballo si scoprono meno motivati; a parte quelli in cui Somma ha dovuto inventarsi di tutto per sostituire con l’accentazione giusta le molte ricorrenze delle parole “re” e “conte” per dire Gustavo o Ankastrom (“l’innamorato Conte riposa” è diventato un singolare “l’innamorato campion si posa”); a parte questo, si badi come nella versione svedese la profezia di Ulrica non prevedeva che l’assassino del protagonista sarebbe stato un suo amico, e il fatto d’essere amico non appare perciò in Ankastrom come un ulteriore inquietante titolo di sospetto, ma come una garanzia della fallacia della profezia. Nel ritocco per il Ballo, Verdi e Somma sentirono invece di dover rafforzare la questione. Il punto più vistoso resta l’aria del baritono del terzo atto, per la quale tra l’altro Verdi aveva scritto all’inizio una musica diversa, meno rabbiosa, più cupa, più triste (che qui la si senta con quella adattata ai versi rifatti, è altra questione). Anche in quest’aria, espressioni come “santuario dell’anima mia”, il già citato “cherubin” e persino “vassallo tuo” subirono brusche sostituzioni, ma almeno non lamentiamo la perdita di quel “in tal guisa rimuneri”, diventato nel Ballo “compensi in tal guisa”. Lavoraccio, insomma, altro che pochi ritocchi.
Morale: Verdi potrebbe dire che non è il caso di andare a rimestare le mani nel lavoro del compositore. Ma qui ci sta quel che disse Philip Gossett a difesa del proprio operato, tagliando la testa al toro: «Il teatro è un luogo del gioco, inteso nel suo senso più elevato. E allora, lasciateci giocare».


 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.