L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'immagine dell'Egitto

 di Roberta Pedrotti

 

Svetta, protagonista indiscussa, Anita Rachvelishvili nell'Aida inaugurale della stagione 2015/16 del Teatro Regio di Torino. Lo spettacolo, nato nel 2005 e ripreso per festeggiare la riapertura del Museo Egizio in allestimento rinnovato, ha come altro punto di forza il suggestivo lavoro iconografico dello scenografo e costumista Carlo Diappi, purtroppo non adeguatamente sostenuto dal regista William Friedkin. Sul podio Noseda garantisce qualità, ma non un'interpretazione memorabile.

leggi la recensione del cast alternativo (Pirozzi, Chiuri, Pisapia)

TORINO 25 ottobre 2015 - Terza inaugurazione consecutiva nel segno di Verdi, al Regio di Torino: dopo Simon Boccanegra (2013, leggi la recensione) e Otello e Requiem (2014 leggi le recensioni di Otello e del Requiem) ecco Aida, inevitabile tributo del teatro al Museo Egizio cittadino recentemente rinnovato nonché segno vivo e tangibile del rapporto virtuoso di integrazione e collaborazione fra le realtà non solo culturali della capitale sabauda. Vivo e tangibile perché programmare l'opera egiziana per eccellenza per festeggiare il museo egizio per eccellenza (almeno fuori dai confini autoctoni) potrebbe suonare come atto dovuto fine a se stesso, ma il lavoro di Carlo Diappi scenografo e costumista pare la perfetta, ideale continuazione della piccola mostra fotografica allestita nel foyer superiore, delle riproduzioni esatte di reperti custoditi nel museo esposte in teatro insieme con i costumi originali di Tamagno (Otello e Radames) e della Caniglia (Aida). Diappi riprende con fedeltà archeologica l'iconografia egiziana, fa prevalere nei costumi il bianco e la garza, si attiene con una fedeltà scrupolosa alla realtà storica, ma non nel far rivivere una concretezza svanita con i millenni, bensì nel filtrarla attraverso la percezione che ne abbiamo oggi noi moderni confrontandoci con la cultura materiale esposta nei musei. Niente fronzoli, niente tinte vivaci, bensì, con il bianco l'oro e il celeste, la pietra color sabbia su cui sbiadiscono lentamente antichi colori un tempo sgargianti. Se, dal punto di vista scenografico, il secondo atto è un piccolo capolavoro, con l'alternanza classica fra “scena corta”e “scena lunga” resa attraverso la splendida ricostruzione dello spazio raccolto degli appartamenti di Amneris, anche la palese inverosimiglianza di alcune soluzioni (la collocazione del tempio nel terzo atto) contribuisce a creare un clima di composizione idealizzata, di rêverie reinventata secondo l'immagine che noi oggi abbiamo dell'antico Egitto, e a cui contribuisce anche l'utilizzo, come seggio pubblico e privato, del trono di Tutankamon da parte di Amneris e suo padre, o di un “immenso Ftah” che non presenta gli attributi del dio Ptah, essendo l'immagine ricontestualizzata di un Faraone.

Se, nei bozzetti, lo spettacolo ha una forte identità e può esercitare un indubbio fascino, non altrettanto si può dire della regia di William Friedkin, che dopo dieci anni (la prima torinese è del 2005) appare già invecchiata. E questo perché l'unica idea espressa dal regista premio Oscar sembra essere quella di un'adesione totale e acritica all'iconografia classica, il che, in questo caso, sembra significare semplicemente assicurarsi belle scene e bei costumi storici e regolare entrate e uscite lasciando poi i cantanti per lo più a loro stessi. Rare idee non lasciano il segno, come un ben poco implacabile Ramfis che sembra voler spiegare ad Amneris che il suo amato “è traditor”, o gli acrobati su nastro che promettono mirabilia nel trionfo per un istante, ma tutto quel che fanno è scendere e andarsene. Le coreografie di Marc Ribaud riprese da Anna Maria Bruzzese giocano a rievocare un teatro d'opera grandioso d'altri tempi, con esiti più felici nel finale secondo che non, per esempio, nella danza dei moretti, afflitti, per di più, da parrucche afro improbabili in un contesto in cui la ricostruzione delle acconciature appare, escluso Radames, storicamente ineccepibile.

Se la regia teatrale di Friedkin sembra del tutto rinunciataria in favore delle scene e dei costumi come valore assoluto, la regia musicale di Gianandrea Noseda, attesissima, non raggiunge i livelli di altre sue prove precedenti. Il direttore, più che tornire il rapporto con il canto, bada sempre a un fraseggio asciutto, in un ben calibrato bianco e nero che ricerca atmosfere più che, in questo caso, passioni contrasti e tensioni. Innegabile la qualità complessiva, così come la riuscita del finale primo, in cui il coro svetta per ispirazione, timbratura anche nei pianissimo più sottile e suggestivo, sonorità negli estremi gravi. Manca però, nel complesso, quell'intuizione, quel guizzo, quel dettaglio che lasci il segno e che trasformi una lettura di qualità in una concertazione memorabile.

Chi domina incontrastata e rende memorabile questa recita è Amneris, al secolo Anita Rachvelishvili, uno dei più preziosi tesori del teatro musicale contemporaneo. Potremmo ribadire, senza tema di smentite, lo splendore di uno strumento privilegiato, capace di svettare con assoluta naturalezza nei momenti più ardenti del IV atto, ma quel che più conta è l'arte con cui ci viene porta tanta meraviglia vocale. Si pensi, appunto, alla grande scena con i sacerdoti, in cui l'invettiva alla pubblica ingiustizia “Voi colpite chi colpa non ha!” è un perentorio fiume in piena, mentre la supplica privata “quest'uomo che uccidi, | tu lo sai… da me un giorno fu amato” è sussurrata con una pudica dolcezza commuovente. Si pensi alla capacità di essere sensuale e dolente, insinuante e feroce, lieta d'innamorato candore, “tigre al cor ferita”, sconfitta, disperata e pentita. Si pensi alla capacità di essere autorevole senza mai risultare matronale, restituendo il ritratto più autentico di una giovane donna la cui tragedia è quella di aver avuto tutto dalla vita, tranne l'unica cosa a cui tenesse veramente, quell'amore che unirà per sempre Radames e Aida: “tu sei felice, tu sei possente | io vivo solo per questo amor”, ma, pur nel fatale epilogo, la schiava quell'amore lo possiede, è ricambiata, mentre Amneris è condannata a una vita di rimorso rimpianto.

La schiava in questione è Kristin Lewis, esperta del ruolo che ha portato recentemente anche alla Scala. Che, a dispetto del curriculum, si tratti di una grande Aida, però, non è scontato. Manca alla Lewis, nonostante l'esperienza, la cura dell'articolazione della parola e della frase musicale che in Verdi più che mai è fondamentale. La linea è fin troppo omogenea, sommessa, alla ricerca di una morbidezza che, portata all'eccesso, arriva a confondere i contorni e gli accenti, mentre l'emissione assai coperta, alla ricerca di un suono esotico, comporta spesso acuti non ben timbrati e controllati. I primi due atti risultano più convincenti, mentre le energie si affievoliscono man mano nel prosieguo senza essere compensate dall'accento. Viceversa Mark Doss, Amonasro, esibisce uno strumento sempre più prosciugato e indurito, che s'adatta a fatica alla mobilità della scrittura verdiana, tuttavia la personalità non gli manca e, anzi, si direbbe che tutto quel che ci fa sentire sono accenti, parole sbalzate con baldanza.

Di Marco Berti si è detto e ripetuto infinite volte come lo splendore di una delle vocalità più eclatanti degli ultimi decenni avrebbe potuto trasformarlo in uno dei più grandi tenori fra XX e XXI secolo, se avesse potuto vantare una musicalità più salda e rifinita. Purtroppo con il tempo anche i mezzi naturali stanno perdendo smalto e a qualche lampo sempre notevole si accompagnano troppi suoni nasali o mezzevoci imperfette (non troppo bello il finale), sempre in una quadratura musicale e interpretativa piuttosto generica.

Giacomo Prestia, al contrario, pur nel trascorrere del tempo che lascia inevitabili segni, risulta sempre un Ramfis assolutamente autorevole e credibile. In-Sung Sim è un ottimo Re, Dario Prola e Kate Fruchterman fanno bella figura come Messaggero e Sacerdotessa.

Il successo è notevole, Noseda, amatissimo direttore musicale, è festeggiato lungamente e la Rachvelishvili suscita un'ovazione, dopo la scena del giudizio, che costringe tutto il teatro a fermarsi per alcuni minuti.

foto Ramella Giannese


 

 

 
 
 

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