L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Ildar Abdrazakov

Immenso Ildar

 di Emanuele Dominioni

 

Ildar Abdrazakov, il re dei bassi verdiani attuali, torna alla Scala da trionfatore con uno splendido recital.

Milano, 30 maggio 2016 - Nei vari cicli di recital che il teatro alla Scala ci ha offerto negli ultimi anni, fra stelle di ieri e oggi, mancava da qualche tempo, in campo maschile, una figura carismatica, affascinante (non solo vocalmente) e al culmine del proprio percorso artistico. Tutte caratteristiche che si ritrovano ora in Ildar Abdrazakov; inspiegabilmente assente da qualche anno nei cartelloni scaligeri, emerso sotto la gestione Muti, egli ritorna ai fasti meneghini con alle spalle una carriera luminosa e ormai consolidata, meritatamente sviluppatasi dopo quel fortunato Concorso Callas che lo vide vincitore nel 2000.

Da allora è diventato voce verdiana di riferimento, ma altresì un artista a tutto tondo, capace di spaziare dal belcanto italiano e dal repertorio russo fino a quello francese.

Nel presentarsi al pubblico scaligero, accompagnato dalla pianista Mzia Bachtouridze, percepiamo subito la piena padronanza del contesto e la grande gioia nel tornare in questo teatro. Sentimenti confermati dalle sue parole che, di lì a poco, nel ringraziare i presenti ci introducevano al concerto.

I primi brani di Glinka mostrano immediatamente la mirabile qualità timbrica di Abdrazakov, capace di impreziosire le brevi frasi d'amore delle due liriche grazie a una padronanza del testo assoluta. L'emissione scorre chiara e morbida anche nella Canzone del viaggio, in cui l'andamento sillabato di rossiniana memoria ha fibadito la maestrìa tecnica del basso in un inarrestabile, rapidissimo crescendo di suoni e parole.

La Canzone n.9 tratta dalle Dodici canzoni persiane di Rubinstein, tanto ammirata da Franz Listz che ne compose una versione per pianoforte solo, raccoglie la prima grande ovazione del pubblico. Raramente, in tempi recenti, abbiamo potuto ascoltare un basso capace di un canto sul fiato con piani e pianissimi ampiamente sostenuti nel registro acuto, senza falsettare né incrinare la linea. Abdrazakov non solo cesella le chiusure di frase con assoluta padronanza, ma mantiene alta la tensione nel pubblico fino al fragoroso applauso finale.

Col passaggio a Musorgskij, l'atmosfera musicale si fa più tesa e meditativa. La grande valenza teatrale e drammatica delle liriche ci offre degli squarci intesissimi del sentire russo nelle scene di vita quotidiana nella steppa. Ninna nanna in particolare ha preso letteralmente vita grazie all'abilità di Abdrazakov nell'impersonare ora la morte, ora la voce disperata della madre. Il fatto che questo scambio di ruoli venga affidato alla calda voce di basso rende il tutto ancora più straniante e commovente. In Trepak, grazie a Musorgskij, si perde ogni connotazione musicale della danza tipica slava, per lasciare spazio al racconto della tragica vicenda del lento spegnersi di un contadino ubriaco. Abdrazakov scava nel testo dialogando col pianoforte e, attraverso una cangiante varietà di colori, ci immerge totalmente nella cupa narrazione.

La seconda parte del concerto si apre con la lirica Cupo è il sepolcro e mutolo di Giuseppe Verdi. Col passaggio alla lingua italiana la fulgida pastosità dello strumento si fa ancor più lampante, laddove la qualità del legato si lega alla precipua padronanza dell'idioma italico. Qui, come anche nei successivi brani di Ponchielli e Leoncavallo, il piacere melodico lascia il passo al grande pathos espressivo del testo, che Abdrazakov asseconda appieno aiutato da un fraseggio sempre cangiante.

Nell'ultima parte la temperatura della serata sale ulteriormente, grazie anche al dialogo costante che il cantante ha intrattenuto col pubblico. In uno di questi ha voluto dedicare il brano di Donizetti Viva il matrimonio alla moglie presente in sala. Del tutto esilarante è stata l'interpretazione di Abdrazakov, che ha saputo sfruttare la caratura comica del pezzo, attraverso le molte onomatopee, il canto sillabico e le emissioni in falsetto.

Sulla stessa lunghezza d'onda, l'inno popolare di Zandonai dedicato alla Fiat 509 ha trovato un interprete spumeggiante e gagliardo del tutto a proprio agio nella folklorica vitalità del brano. Tornando a tinte più malinconiche e sentimentali, i due brani di Luigi Denza Occhi di fata e Vieni! si fanno apprezzare per la grande varietà dinamica e gli immacolati passaggi all'acuto, filati con sapiente arte del porgere.

I primi due bis che ci ha regalato arrivano a grande richiesta di pubblico: “Infelice e tuo credevi” da Ernani, e “Mentre gonfiarsi l'anima” da Attila, entrambi con relativa cabaletta. È quasi riduttivo qui tessere ulteriori lodi per l'arte di questo cantante nel suo repertorio ideale. L'accento verdiano, l'assoluta fedeltà alla parola scenica e la padronanza dell'ardita linea vocale fanno di lui interprete che ha ben pochi rivali al momento in questo universo musicale. Lo si aspettava in qualche modo al varco, e non ha deluso le aspettative, infiammando la platea.

Ultimo brano “La calunnia” rossiniana: un regalo limpido, esilarante, quasi irrinunciabile, a un pubblico scaligero incantato e galvanizzato da tanta bellezza e bravura.


 

 

 
 
 

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