L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

turandot macerata

Sferisterio a bocca secca

 di Francesco Lora

Turandot, Madama Butterfly e Aida sono spettacoli che restituiscono, quale più quale meno, la crisi identitaria del Macerata Opera Festival, perso dietro regìe di grande battage pubblicitario ma modesto riscontro teatrale, e non abbastanza attento a compulsare il valore dei direttori e dei cantanti coinvolti.

Turandot

Madama Butterfly

Aida

Il Macerata Opera Festival sulla recensione all'edizione 2017

MACERATA, 4-6 agosto 2017 – Ritorno di chi scrive all’Arena Sferisterio di Macerata. L’ultima volta era stato nel 2003, per una Lucia di Lammermoor tradizionale (ma non troppo) e positivamente adeguata a ciò che richiedeva quel pubblico, non ignaro ma venuto da tutta Italia a sedersi in una platea dove crescevano alte erbacce; ad attirare c’erano la regìa di Henning Brockhaus e le scene di Josef Svoboda, e c’era soprattutto una protagonista come Mariella Devia. Alla fine del mese, oggi, recensire il Macerata Opera Festival 2017 rimane invece un penoso arretrato dal quale si vorrebbe essere esonerati. Vivacissime sono l’attività e la cronaca da Martina Franca, Pesaro, Verona e altri luoghi italiani di festival estivi: l’una è apprezzata e l’altra è propagata da un pubblico in dialogo con i cartelloni, ciascuno caratterizzanto in vista di un preciso modo di amare il teatro d’opera. A Macerata oggi si scambiano sguardi imbarazzati con i pochi colleghi critici presenti nello Sferisterio, e non si incontrano i visi noti dei melomani irriducibili che frequentano ogni stagione che conti.

Come che sia: tema originalissimo del Macerata Opera Festival 2017 era il solito Oriente. In programma, la prima esecuzione assoluta di Shi (Si faccia) di Carlo Boccadoro al Teatro “Lauro Rossi” (20 e 26 luglio e 2 e 9 agosto; appropriato il soggetto sul padre missionario maceratese Matteo Ricci; ma un’opera contemporanea destinata a chi, su un terreno sociale non prima preparato?) e l’abituale terna di titoli loro malgrado arcipopolari e dunque bistrattati nella mediocrità dei teatri all’aperto: Turandot di Puccini (21 e 29 luglio e 4 e 13 agosto), Madama Butterfly dello stesso (22 e 28 luglio e 16 e 12 agosto) e Aida di Verdi (30 luglio e 5, 11 e 14 agosto).

Alla maniera di chi vende l’uccello sulla frasca ancor, il botto dell’anno era predisposto nella Turandot con “progetto creativo” di Gianni Forte e Stefano Ricci, regìa di quest’ultimo, scene e luci di Nicolas Bovey, costumi di Gianluca Sbicca e movimenti scenici di Marta Bevilacqua. Due sono le vie drammaturgiche per allestire l’ultimo capolavoro pucciniano senza uscire dal testo: assecondandone il lato orientale, decorativo e meraviglioso, cioè privilegiando il pieno negli occhi del pubblico, ovvero procedendo all’indagine antropologica nei significati oggettivi della fiaba, dove l’antenata cui è stata fatta violenza possiede in anima e corpo Turandot fino all’esorcismo mediante il sacrificio di Liù. Con uno spettacolo gelido e snobisticamente ermetico, dove il letterale è spazzato via senza contraccambio di suggestione o insegnamento, Forte e Ricci hanno ai fatti dimostrato l’impraticabilità della loro terza via: in essa la protagonista è vacuamente «intesa come una donna di oggi che ha paura di diventare adulta e si rifugia nel regno della sua fantasia, sfruttando il proprio straordinario potere immaginifico a suo uso e consumo». Da ciò derivano non tanto concetti inediti quanto immagini come quella del coro di voci bianche fucilato in massa e quella di Turandot che si bagna nel sangue tra un enigma e l’altro; immagini che vorrebbero essere forti e sono invece didascaliche o sciocche o in vista dello scandalo da cavalcare: comunque fuori dall’evidenza testuale, nonché dall’utilità di manomissione del testo.

Sarebbe piaciuto dire qualcosa circa la concertazione di Pier Giorgio Morandi, che però è pura routine e fa volare via col raro vento della notte estiva le deboli intenzioni delle quali riferire: sotto la sua guida, l’Orchestra Regionale delle Marche e il Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini” – poi ritrovati negli altri spettacoli – insieme con i locali Pueri cantores “Domenichino Zamberletti”. Dopo la "prima", forfait di Iréne Theorin; perduta la protagonista, certuni hanno proclamato nella “copertura” France Dariz una rivelazione: e si è trattato invece del solito soprano con risorse cospicue (volume) ma generiche (accento, dosaggio, fraseggio, musicalità, recitazione), pronto a spendere il capitale più che a maturare gli interessi. Tale gioco sembra già pervenuto a fase catastrofica nell’ansimante, forzato e approssimativo Calaf di Rudy Park, costretto a evitare le varianti acute che fino a poco tempo fa sapeva scaraventare spavaldamente in aria. Regina della festa è così rimasta Davinia Rodriguez, Liù singolare per via dell’emissione affilata e del timbro vitreo, ma capace della caratterizzazione e della modulazione precluse agli altri.

Si è pigliata una boccata d’aria con la ripresa della Madama Butterfly: regìa di Nicola Berloffa, scene di Fabio Cherstich e costumi di Valeria Donata Bettella. Uno spettacolo chiaro, asciutto, che tocca sì il trito tasto del teatro nel teatro, ma con mano leggera e pregnanza visiva, e che senza ombra di horror vacui riempie l’anomalo palcoscenico d’infinita lunghezza. Maria José Siri, come Cio-Cio-San, vi si è eretta a regina dell’intero festival: suo di gran lunga il canto più duttile, sfumato, smaltato, vibrante, risonante, in grado di restituire con l’impegno gestuale un personaggio tutto dignità e foriero di commozione. I panni di Suzuki, a loro volta, cadevano assai bene addosso alla premura vocale e allo zelo scenico di Manuela Custer, e anche Antonello Palombi si faceva valere come Pinkerton dalla facciata opportunamente solare ed espansiva a nascondere il monotono fondo di codardia. Ha sorpreso per originalità Alberto Mastromarino, non più fresco nella linea di canto ma artefice di uno Sharpless maturo, ruvido, severo, attonito più che imbarazzato di fronte alla tragedia della protagonista e indignato più che compagnone di fronte alla leggerezza di Pinkerton. Il resoconto investe di lode anche il concertatore Massimo Zanetti, che a dispetto delle usuali trasandatezze areniane ha qui flesso con tenacia orchestra e coro in ricerche timbriche e in sferze agogiche di compiuto effetto drammatico.

Doccia fredda alla vigilia della ripresa dell’Aida. Dovevano esserci Maria Pia Piscitelli come protagonista e Sonia Ganassi come Amneris: un assortimento intrigante. Ma in scena sono salite rispettivamente Liana Aleksanyan e Anna Maria Chiuri. Lunare, delicata e sfuggente la prima, con timbro argenteo benché comune, assai tesa nel salire al Do dell’aria. Impetuosa, sfarzosa e immanente la seconda, con compiaciuta esibizione del registro di petto e in genere di una salute vocale genuinamente areniana. Nessuna forzatura alla propria bella indole lirica fa Stefano La Colla come Radamès: non ne esce una lettura forbita e sottile come avverrebbe sotto il torchio di un Riccardo Muti, ma si gode di spontaneità, naturalezza e dote comunicativa. Qualche incertezza di tono ed estensione nel Ramfis di Giacomo Prestia, che rimane nondimeno una delle più nobili, pastose e ieratiche voci di basso vantate nel contesto italiano. Di modesta estrazione, per contro, l’esitante Amonasro di Stefano Meo.

Sul podio direttoriale Riccardo Frizza non ha lasciato ricordo particolare, contentandosi di condurre in porto l’iniziativa dei cantanti e non attuando l’analisi lodata, per esempio, nell’ultimo e gagliardo Attila veneziano [leggi la recensione]. Lo spettacolo era quello con regìa di Francesco Micheli, scene di Edoardo Sanchi, disegni proiettati di Francesca Ballarini, costumi di Silvia Aymonino, luci di Fabio Barettin e coreografie di Monica Casadei. L’azione si svolge senza peculiare bussola drammaturgica sulla tastiera di un computer portatile, mentre sul monitor scorrono didascalie dal sapore puerile, a duplicare i sopratitoli e fare prova del quoziente intellettivo del pubblico. Lo si tollera anche perché alla fine – viene detto – il parziale richiudersi del notebook dovrebbe separare lo spazio della tomba da quello del tempio, con un coup de théâtre da far tremare – figurarsi – la memoria di Luca Ronconi; e invece il 5 agosto c’è stato un guasto tecnico: tante scuse alla platea e ritorno a casa a bocca secca. Ma secca.

le foto  Alfredo Tabocchini


 

 

 
 
 

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