L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Altra legge io non ho

di Antonino Trotta

 È destinata al grande pubblico L’italiana in Algeri in scena al Teatro Regio di Torino: se la lettura a buon mercato di Vittorio Borrelli fa storcere il naso agli estimatori del Cigno di Pesaro, il parterre vocale, non sempre aiutato dalla direzione di Alessandro De Marchi, concede una buona dose di soddisfazioni. Spiccano le prove di Martina Belli, Xabier Anduaga e Carlo Lepore. 

Torino, 24 maggio 2019 – Nella tomba d’oro della musica di Rossini ci si diverte sempre tantissimo: Il barbiere su tutte, quindi La Cenerentola e L'italiana, sono modelli inarrivabili di comicità in punta di fioretto, stelle abbaglianti nella volta del dramma giocoso, ma anche pilastri di un baluardo eretto in tempi ingrati che ancora oggi sembra negare al grande pubblico l’accesso a un universo ben più vasto. La parzialità del ritratto o il fraintendimento dell’intenzione sono pericoli a cui non solo le produzioni più striminzite sottopongono costantemente Rossini: l’immagine del compositore pacioccone, ormai datata, sopravvive ancora oggi, a renaissance cotta e impiattata – resta solo da offrirla a tutti, anche al di fuori dell’oasi di Pesaro –, quale copertina plastificata di una drammaturgia musicale invero assai sopraffina, elaborata e perché no, visionaria, proiettata ben oltre la leggerezza del materiale puramente ridanciano. 

Rimane al di qua di questa barriera L’italiana in Algeri al Regio di Torino, nell’allestimento firmato da Vittorio Borelli, che sembra voler assecondare solo lo stereotipo del Rossini farsesco, caricaturale e nemmeno esistente. Saltando a piè pari diverse circostanze di pretestuoso didascalismo, i nuotatori inseguiti dallo squalo, le finestre sbattute nel quintetto del caffè, il bagno turco, persino lo chef Cannavacciuolo che tira le sue proverbiali pacche a destra e a manca, costituiscono solo alcune della tantissime gag attraverso cui questo spettacolo acquista una forma, spiace dirlo, distorta e un po’ banale, secondo quella legge posticcia che riduce il lavoro di Rossini a un laboratorio inesauribile di grasse risate. Certo, fuori dal perimetro in cui abita la consapevolezza che L’italiana e Rossini in generale sia ben altra cosa, non si possono negare l’efficacia e la piacevolezza della messinscena, né l’indiscutibile mano o la vulcanica inventiva di Borrelli, che comunque arride all’ilarità della serata con tono garbato e piena consapevolezza del palcoscenico, rinvigorito dalle belle scenografie di Claudia Boasso e dai graziosi costumi di Santuzza Calì. 

Meno commerciale il podio dove Alessandro De Marchi, alla guida dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino che pur ha esibito qualche défaillance – l’intonazione del corno è talvolta al limite nel lunare preludio alla cavatina di Lindoro –, osa una lettura più sensibile del capolavoro rossiniano, tuttavia non sempre con esiti felici. Talora la ricerca del dettaglio strumentale propala l’eleganza del dettato musicale – bellissimi l’atmosferico sciabordio degli archi nel coro di introduzione alla cavatina di Isabella o il taglio cameristico dell’aria di Haly –, talaltra la rinuncia al mordente spegne la verve di molti passaggi. Inoltre, tanto più plastica si fa la modellazione ritmica e dinamica della concertazione, tanto più periclitante diviene l’armonia tra golfo mistico e palcoscenico, spesso perso d’occhio. I concertati, i pertichini, i pezzi d’assieme e finanche le scene solistiche, soprattutto a ridosso delle agogiche imprevedibili, soffrono di scarso amalgama e, alla fine, non si ascoltano mai a cuor sereno. E se questa è la sensazione per chi siede in platea, figuriamoci per i cantanti alla ribalta. 

Maggiori soddisfazioni arrivano dal parterre vocale, composto da rodati interpreti rossiniani, nuove leve e promesse del bel canto. 

Sebbene si muova in una tessitura evidentemente stretta, troppo bassa per la sua fisionomia vocale, Martina Belli risolve con intelligenza il personaggio di Isabella. La disinvoltura nel canto fiorito si fa apprezzare nello spumeggiante rondò finale, la musicalità liquida, la morbidezza della linea, l’accento ammiccante e il legato splendono nell’aria «Per lui che adoro» al punto da far desiderare di poterla ascoltarla anche altrove – come Angelina, ad esempio, volendo rimanere circoscritti al Rossini da battaglia. Le si potrebbe imputare poca incisività nel registro grave, qui decisamente sollecitato, ma negli affondi, al netto di pochi suoni troppo aperti, è brava a centellinare l’emissione di petto così da preservare la salita all’acuto, piuttosto agevole. È inoltre spiccata scenicamente e, aiutata da una fisicità sensuale, anima con buon gusto la femme fatale pensata da Borrelli, comunque lontana dalla caratura sanguigna dell’eroina. 

Canta al chiaro di luna con una voce bella come il sole Xabier Anduaga, privilegiato da una natura di lusso per cui i colleghi potrebbero fare – e farebbero bene a fare – carte false. Così arriva Lindoro dopo i recenti Don Ramiro (a Padova) e Conte d’Almaviva (a Parma), dalla scrittura assai più infame - con si bemolle e do piazzati in anfratti spigolosi della tessitura tali da esigere controllo assoluto e sfacciata baldanza virtuosistica – in cui disimpegnare uno strumento della portata pressoché torrenziale. Quando la voce si apre nella corretta posizione, senza forzare, non ce n’è per molti (se non per nessuno!): è sublime la frase del terzetto «in Italia vien concesso», possente e luminosa nell’involo all’acuto, facilissimo, che riempie di armonici la sala del Regio. L’inclinazione al lirismo è evidente dalla sortita dove Anduaga, forte dei centri statuari, declina il cantabile di ingresso con pronunciata varietà dinamica, soprattutto nella ripresa, tutta a mezza voce. Allorquando la buca concede tregua, poi, il canto di coloratura trova la sua accattivante espressione. In virtù di tutto ciò è allora sonora la tirata d’orecchie per quella pronuncia incolta, viepiù se l’impegno scenico si è fatto ora più attento al gioco della commedia.  

Dunque arrivano Carlo Lepore, Mustafà, e Paolo Bordogna, Taddeo, inossidabili animali da palcoscenico senza i quali lo spettacolo avrebbe avuto molto meno da raccontare. Sottile il primo, più plateale il secondo, i due buffi ribadiscono come la comicità sia una questione di ritmo, mimica facciale, prontezza, equilibrio, e nel meccanismo della commedia all’italiana si bilanciano alla perfezione. Lepore ha poi il pregio di rendere l’incontenibile carica istrionica secondo il modus operandi dell’esperto belcantista, all’insegna cioè della spigolatura vocale, del fraseggio cristallino, della dizione precisa, della sfumatura. Discorso simile per Bordogna, penalizzato tuttavia nelle stoccate della sua aria con coro da un vibrato stretto poco gratificante.  

Benjamin Cho, già lodato Germont nella Traviata che quest’anno ha inaugurato la stagione del Municipale di Piacenza, conferma la buona qualità della voce nonostante nell’unica aria, «Le femmine d’Italia», chiusa nella seconda recita con una puntatura – abbastanza inutile – sul sol, riveli un certo affanno nel canto di agilità. Fresca e sonora l’Elvira di Sara Blanch, corretta Rosa Bove nei panni di Zulma, pregevole la prova del Coro del Teatro Regio di Torino istruito da Andrea Secchi. 

Il successone della serata esplode con vibrante entusiasmo da una platea gremita fino all’orlo. Del resto le Italiane «nate son per farsi amar».  


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