L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La nascita del '900

di Roberta Pedrotti

A Bologna si ricordano i cento anni dalla prima apparizione cinematografica di Charlot con una serie di iniziative fra cui la proiezione in Piazza Maggiore di quattro pellicole (Kid auto races in Venice, A night at the show, The immigrant e Shoulder Arms) in versione restaurata e accompagnate dall'Orchestra del Teatro Comunale di Bologna diretta da Timothy Brock. Un sentito e partecipato omaggio al genio veggente e leggero che meglio di chiunque altro ha interpretato il cinema e il Secolo breve.

BOLOGNA 25 giugno 2014 - Il 28 giugno del 1914, a Sarajevo Gavrilo Princip con la sua pistola assesta il colpo di grazia all'Europa degli Imperi e con essa all'Ottocento e all'illusione, pure intellettuale, della Belle époque, segnando ufficialmente l'atto di nascita del XX secolo. Pochi mesi prima, dall'altra parte dell'oceano, con molto meno clamore, in soli sette minuti, aveva fatto la sua prima apparizione sul grande schermo la maschera che, con il suo bastone e la sua bombetta, meglio di ogni altra avrebbe interpretato e divinato il secolo breve.

L'invenzione dei fratelli Lumière aveva meno di dieci anni, l'attore londinese venticinque, e si chiamava Charles Spencer Chaplin.

Quel cortometraggio dal titolo Kid auto races at Venice (in italiano noto come Charlot si distingue) alla presenza dei figli Michael e Victoria e dell'attrice Claire Bloom (giovanissima protagonista di Limelight/Luci della ribalta) ha aperto la serata in onore del Maestro, evento di punta delle celebrazioni che, fra mostre, convegni e proiezioni, la Cineteca di Bologna dedica al centenario di Charlot nell'ambito della rassegna Sotto le stelle del cinema, appuntamento annuale con pellicole restaurate e ben selezionate nella brezza gentile delle sere d'estate in piazza Maggiore.

La festa è completa, la proposta in grande stile, con l'orchestra del teatro Comunale ad accompagnare tre cortometraggi e un mediometraggio sotto la direzione di Timothy Brock, autore anche delle musiche dei primi tre, mentre per l'ultimo (Shoulder Arms/ Charlot soldato) avevamo la fortuna di disporre della partitura firmata dallo stesso Chaplin, il cui genio comprendeva, onnivoro, ogni aspetto della produzione cinematografica, sempre ai massimi livelli.

Tutti i film si iscrivono nell'arco temporale della Grande Guerra - Kid auto races at Venice, abbiamo detto, è del 1914, A night in the show (Charlot a teatro) del 1915, The immigrant (L'emigrante) del '17 e Schoulder Arms del '18 - e quattro titoli che sembrano già delineare in filigrana tutto quello che sarà il secolo aperto dall'Inutile strage.

La comica del debutto potrebbe essere solo l'innocuo sketch con protagonista il classico ossessivo importuno, ma, al di là del carisma già disarmante dell'attore (e dell'ottima regia di Henry Lehrman), quel che sconvolge ancor più a distanza di un secolo è la profetica rappresentazione del potere magnetico della macchina da presa. Charlot, notata la nuova meraviglia tecnica pronta a filmare la gara d'auto a pedali, viene catturato dal suo fascino irresistibile, invade lo spazio, s'insinua, simula indifferenza o s'impone sfrontatamente per essere protagonista, per guadagnare un'inquadratura, un quarto d'ora (o un solo minuto) di celebrità. Il crescendo di trovate che dalla scoperta quasi casuale dell'obbiettivo arrivano all'effimera conquista di un primissimo piano, sembra già contenere in nuce tutto il futuro mefistofelico dell'impero dell'immagine, dell'apparenza, del video dai Lumière a youtube.

Il vagabondo che s'illude di un riscatto in un'inquadratura si sdoppia poi nel doppio ruolo di A night at the show, in cui Chaplin è, oltre che regista e sceneggiatore, interprete degli opposti e speculari dello spocchioso borghese Mr Pest (ovvero pestifero, molesto, fastidioso come una zanzara) e dell'ubriacone proletario Mr Rowdy (rumoroso, caciarone). Ovviamente le classi a teatro sono ben distinte, fra una platea elegantissima e un loggione che sembra ricalcato dal Vagone di terza classe di Daumier, ma la lente deformante del grottesco non trasforma però pienamente la realtà in caricatura e macchietta, bensì, con effervescente invenzione, mette in evidenza l'assurdità della società e delle differenze di classe. I difetti amplificati dei ricchi e dei poveri, attraverso due piani paralleli di narrazione e comicità, nel susseguirsi di gag (e nell'utilizzo magistrale di cliché come quello del lancio delle torte) rivelano lo sguardo acuto e la coscienza politica dell'artista, che dimostra come i comportamenti siano legati alle convenzioni e al contesto e perfino che mentre Mr Pest sembra far di tutto per disturbare lo spettacolo con supponente malizia, in fondo, Mr Rowdy agisce con goffa ingenuità con intenti positivi, come quando interviene con l'estintore per salvare il mangiafuoco.

Un'acuta analisi politica e sociale informa anche The immigrant e ne fa il capolavoro che è, dando sostanza all'impressionante virtuosismo tecnico con cui è realizzato, per esempio, il beccheggio della nave con il suo vario carico di disperati. La levità della fiaba (il finale, con la scrittura come di Charlot e della storica partner Edna Purviance, strappati alla miseria degli immigrati, è la realizzazione del sogno americano, non senza una sfumatura autobiografica) si sposa con un umorismo pirandelliano, in bilico fra riso e tragedia. Ne è un esempio la scena del ristorante, dove, sì, si ride di gusto osservando Charlot ingegnarsi per saldare il conto, ma, nel contempo, resta palpabile la tensione e non sfugge il dramma umano alla base dell'avventura dell'immigrato squattrinato che ha perso la sua unica moneta e non sa come pagare il pranzo. Lo avevamo visto, già, almeno, nell'agghiacciante grazia con cui mostra la brutalità degli uomini dell'ufficio immigrazione, che trattano né più né meno come bestiame, come massa senza dignità i poveri migranti che avevamo imparato a conoscere in pochi tratti: la robusta madre di famiglia, l'omone slavo di poche parole, la delicata fanciulla con l'anziana madre, il ladro, il poetico vagabondo. Il soggetto è drammatico, il modo di trattarlo leggiadro e sorridente, non privo di malinconico e surreale lirismo, e per questo ancor più penetrante.

Potrà sembrare, forse, meno fulminante e geniale il mediometraggio bellico che ha occupato l'intera seconda parte della serata, ma bisogna tenere conto del richiamo all'attualità imposto dalla contingenza storica (1918) e ben si comprende come Chaplin abbia saputo sviluppare un plot patriottico quasi elementare: un fante americano dalla trincea viene mandato in missione oltre le linee nemiche, dove trova l'amore e mette fine al conflitto catturando il Kaiser in persona, ma tutto è in realtà solo un sogno e il nostro soldatino si risveglia di soprassalto, deluso, ancora nella sua tenda, ancora durante l'addestramento. Apparentemente l'espediente del sogno serve a giustificare le fantasie storiche e avventurose innestate in un contesto contemporaneo, ma in maniera più sottile Chaplin costruisce il racconto che realmente si poteva produrre nella fantasia di una recluta entusiasta e imbevuta di retorica e propaganda prima di conoscere la realtà del conflitto. E in questo racconto filtra l'orrore, canta con affetto non paternalistico la miseria degli ultimi nel mondo moderno, cui si può reagire solo con la poesia, e l'assurdità della guerra. Si mescolano allora elementi avventurosi e – ancora – fiabeschi dell'immaginario comune (la fanciulla in pericolo, il coraggio e l'astuzia dell'eroe, la sconfitta dei malvagi, i nemici alternativamente laidi o stolidi) quali potevano essere condivisi dal soldatino in procinto di partire per il fronte ed elementi realistici sull'orrore della guerra (massime di una guerra vista dalla prospettiva dei fanti costretti a vivere e morire come topi nelle trincee), che la commedia riesce a tradurre in modo ancor più efficace attraverso un sorriso amaro e sempre più consapevole. Le scene di vita quotidiana al fronte anticipano le scene più celebri della Febbre dell'oro (se non si tratta di mangiar scarponi, si tratta di dormire in un alloggio completamente allagato, con le rane che saltano sui piedi e cannucce per respirare sott'acqua), Il grande dittatore è già in embrione nella mente del demiurgo della celluloide.

Tutto il Novecento è già lì, raccontato negli anni della Grande Guerra, raccontando quella stessa Grande Guerra, il dramma dell'immigrazione, il fascino di una telecamera, vizi virtù e sogni di poveri e ricchi, di uomini e donne un secolo fa. Come oggi.


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