L’Ape musicale

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Evocazioni poetiche

Non troppo noto nella smisurata produzione liederistica schubertiana, Geheimes è un gioiello in miniatura: proviene dal West-östlicher Divan di Goethe, raccolta di poesie in cui l’autore ultrasessantenne canta il proprio amore ricambiato per la giovane Marianne von Willemer, con un’intensità a cui il gioco di imitare il poeta persiano Hafis aggiunge novità e freschezza. Lo sguardo dell’amata è il fulcro della breve poesia che Franz Schubert impernia su un ritmo immutabile del pianoforte, che pare di per sé un ammiccare; tutto è furtivo, intuito e non detto, sommesso. Al pianoforte è prescritto l’uso della Verschiebung, il pedale che serve a spostare (verschieben, appunto) la meccanica un poco di lato, sicché i martelletti colpiscono le corde più di striscio e il risultato è una diminuzione nell’intensità complessiva: un aiuto meccanico, insomma, a ottenere il pianissimo che dura per quasi tutto il Lied. Da parte sua, la voce riesce a combinare, in una miracolosa fusione di precisione e naturalezza, una melodia di assoluta grazia con sfumature recitanti che scavano nel senso più riposto del testo, concludendo, fra l’altro, con una curvatura che sembra uscita dalle labbra di Florestano nel Fidelio di Beethoven.

Trockene Blumen è invece un canto di assoluta desolazione: terzultimo del ciclo Die schöne Müllerin (1823), trasforma l’immagine ingenua dei fiori secchi, dono della cara mugnaia, in una metafora dell’amore che senza un perché ha voltato le spalle. Il tema tenerissimo e insieme disperato si regge nella prima parte sugli accordi scarni e catatonici del pianoforte; ma nella seconda parte l’idea del passo dell’amata, che forse un giorno manderà un pensiero un po’ pentito a chi le voleva tanto bene, trasmette al pianoforte un ritmo di marcia che tenta invano di mascherare il dolore in un impossibile ottimismo.

Gretchen am Spinnrade è fra i vertici assoluti della storia del Lied, il canto di un amore turbato e inquieto, quello di Margherita ormai interamente assorbita dal pensiero di Faust. “Svanita è la mia pace”, pensa mentre meccanicamente fa girare l’arcolaio; il lavorio della ruota si specchia nella frase avvolgente e ininterrotta del pianoforte, mentre il canto si muove tra momenti sovrappensiero e slanci appassionati: e su uno di questi, al ricordo del bacio di Faust, la mano tralascia di spingere l’arcolaio e il pianoforte resta di colpo in sospeso. In conclusione, una pagina arcifamosa come l’Ave Maria, propriamente una preghiera derivata dalla Donna del lago di Walter Scott in cui è la protagonista, Ellen, a recitarla; Schubert inventa una delle sue melodie ad ampia gittata e la circonda di un’aureola sonora in cui il pianoforte imita le arpe angeliche.

La celebrità come operista e autore di poemi sinfonici ha un po’ occultato il contributo di Richard Strauss alla storia del Lied, che invece lo accompagnò lungo l’intero arco della sua vita, fino al congedo con i Vier letzte Lieder. Proprio l’op. 10, pubblicata nel 1885, segnò il passaggio dall’apprendistato alla maturità; il terzo brano, Die Nacht, sembra un’emanazione delle grandi pagine di contemplazione notturna di Schubert e Schumann, ma rivela già tutto Strauss fin dall’ansa iniziale della voce, che anticipa un frammento dell’oboe nel poema sinfonico Don Juan, all’epoca ancora da comporre. Mein Herz ist stumm muove da un’immobilità che ricorda di nuovo lo Schubert di Winterreise, ma la scioglie poi in morbidezze liberty e in uno scavo prosodico millimetrico, quasi cartone preparatorio per future opere “di conversazione”. Tutto mormorato accanto alla culla del bimbo che già dorme, Meinem Kinde scorre su un disegno quasi ipnotico del pianoforte e si conclude ripetendo l’inizio, a metà tra ninnananna e preghiera. Ich schwebe traduce uno dei verbi chiave del romanticismo (schweben, ossia aleggiare, fluttuare), in un passo di valzer delicatissimo che pare di nuovo uno schizzo per opere future, dal Rosenkavalier ad Arabella. Morgen!, infine, che Strauss nel 1897 orchestrò, esordisce con un lungo preludio, quasi un lento dischiudersi della luce e dell’alba. La voce entra a sorpresa, inserendosi inosservata quasi come se avesse già cominciato a cantare da prima; su stumm (“muti”) l’armonia ha una mutazione inattesa e il canto resta come sospeso, finché la pagina evapora in pianissimo.

Bimbo prodigio, giudicato “un genio” da Gustav Mahler, Erich Wolfgang Korngold era figlio di uno dei critici più potenti e temuti nella Vienna del primo Novecento, Julius Korngold: posizione scomodissima, che finì per danneggiarlo e far pagare a lui le stroncature assestate dal padre. Proprio questo accadde alla sua opera DasWunder der Heliane (1927), di cui Julius era riuscito a organizzare allestimenti a tambur battente in ben dodici città, ma che fu duramente attaccata come reazionaria da tutti quelli che avevano trovato riprovevole la lotta ingaggiata dallo stesso Julius per impedire che a Vienna si rappresentasse Jonny spielt auf di Ernst Krenek. Fu nei mesi seguiti a questa batosta che Erich compose i tre Lieder op. 22: quasi una fuga dalla grande dimensione, nella forma cameristica e ai confini del silenzio. Il primo, preceduto dal termine innig, “interiore”, “intimo”, che tanto piaceva a Schumann, tenta di spiegare “che cosa sei tu per me” (“Was Du mir bist”), e in realtà si arresta di continuo su commosse stupefazioni, quasi abolendo gli accenti forti e cantando come in sospensione sulle parti deboli della battuta. Ancora più elusivo il seguente Mit Dir zu schweigen, poetica evocazione del silenzio fra due persone che si vogliono bene e che non hanno bisogno di parlare per comprendersi: anche qui canto e pianoforte si intrecciano strettamente e nel loro muoversi per intervalli minimi sembrano timorosi di rompere il silenzio. L’accordo finale resta in sospeso, come accade anche nell’ultimo brano di questa terna, Welt ist stille eingeschlafen: dove la flessuosità Jugendstil, condivisa con i due Lieder precedenti, si combina con una ricerca di timbri chiari e diafani, capaci tramite il pianoforte di evocare la luce fredda della luna.

Col titolo di Canzoni e danze della morte furono pubblicati postumi (1882) quattro pezzi per voce e pianoforte che Modest Musorgskij compose nel 1875 (le prime tre) e nel 1877 (l’ultima). Autore dei testi era il conte Arkadij Goleniščev-Kutuzov, stretto amico di Musorgskij, che addirittura fra il 1874 e il 1875 divise con lui l’abitazione. Di Goleniščev-Kutuzov, poeta per diletto e gran pessimista, Musorgskij aveva già musicato i testi per le liriche Senza sole e le stesse Canzoni e danze della morte sarebbero dovute essere ben di più delle quattro effettivamente messe in musica; ma forse la fine della convivenza (causata dal matrimonio del conte) frenò Musorgskij in un progetto che riapriva in lui una ferita viva. Solo nel 1877, instaurato ormai un rapporto amichevole anche con la diciassettenne sposina di Arkadij, Modest aggiunse ancora un quarto brano, ma qui a ogni buon conto si fermò.

La prima canzone (Ninnananna) è introdotta al pianoforte da una figura spettrale e insinuante, che poi va ad arenarsi su una dissonanza proprio mentre la voce esordisce dichiarando: “Geme il bambino”. Sopra questo pallore il canto procede per un tratto modellandosi sull’andamento delle frasi, sprigionandosi dalle parole stesse, finché nel dialogo tragico fra la madre che veglia il bimbo malato e la morte prevale quest’ultima, con una ninnananna ipnotica e avvolgente. Nella Serenata la malata è invece una bella ragazza, che veglia spiando fuori una notte fresca e stellata che pulsa per sinestesia nel disegno regolare del pianoforte; la morte comincia a cantare sotto le sue finestre una nenia ripetitiva, ma di una bellezza sinistra e intossicante, con cui riesce a stregare la ragazza, fino al grido conclusivo: “Sei mia!”. Il Trepak sviluppa ancor di più le implicite tendenze teatrali dei canti precedenti: un contadino ubriaco cammina barcollando in una notte di tormenta, mentre i bassi inciampano e si incagliano di continuo, e finisce nelle braccia della morte, che lo uccide impegnandolo in uno scatenato trepak (trepat’ significa “battere i piedi”, secondo il movimento caratteristico di questa danza). Infine, nel Comandante, la morte imperversa sul campo di battaglia; alla furia dei combattimenti subentra una pace sinistra, che trasforma in marcia funebre la marcia militare. Sopra quest’immobilità si leva l’inno della morte, che conta le sue truppe, accresciute dai recenti caduti, e tiene loro una dura lezione, troppo tardi appresa: dove la vita non riesce a portare la pace, è la morte a imporla per sempre.

Elisabetta Fava


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