L’Ape musicale

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UNA CADENZA DI DO MAGGIORE

Note di Carlo Goldstein

Guglielmo Tell è una storia che è molte storie. E' la vicenda degli Svizzeri contro gli Austriaci; o anche la storia più in generale di un ideale di libertà che ispira un popolo contro il proprio oppressore; così come è la storia di un padre che, nel momento di maggior pericolo, riesce con un atto di coraggio e abilità a salvare ciò che di più caro ha al mondo. Il Tell è leggendario oppure storico, psicologico o tragico, già romantico o invece porta di uscita di un classicismo morente; possiamo cogliere l’elemento salvifico della natura che con i suoi cicli eterni scandisce i destini degli uomini o invece ammirare la già moderna complessità interiore dei personaggi che vi si affaccia.

Tutte queste prospettive sono potenzialmente interessanti, tutte lecite.

Ogni interprete può valorizzare questo o quel aspetto in ogni fase dell’opera, evidenziare un accento, portare in evidenza una voce o una armonia particolare.

Ognuno insomma può decidere di raccontare di questo monumento musicale uno o alcuni aspetti.

Ciò che invece riesce a raccontare tutte queste storie contemporaneamente è la musica di Rossini.

Una musica che è al contempo l’epicedio di un’epoca e l’apertura a inauditi orizzonti espressivi, una musica che non è né tradizionale né avanguardistica, riuscendo a esser entrambe le cose con naturalezza. Una musica che continuamente aggiunge nuove dimensioni di significato rilanciando la propria tavolozza in ogni direzione concepibile, animando una partitura che è classica nella forma a numeri chiusi ma dirompente nel contenuto.

Il Guglielmo Tell francese, scritto per il vasto palcoscenico dell’Opéra Garnier di Parigi, è a tutti gli effetti un grand-opéra con balletti, vasti recitativi e intermezzi strumentali. Nelle versioni italiane dell’Ottocento Rossini adeguò invece la partitura a palcoscenici più ridotti e a sale meno ampie. Con sorpresa scopriamo che Rossini tagliò non solo tutti i momenti di alleggerimento ma anche arie e concertati (a seconda della disponibilità dei cantanti), ridistribuì la successione degli atti e in un’occasione addirittura riscrisse il finale dell’opera.

Tale disinvoltura non è per noi oggi concepibile ma ci rivela cosa il compositore ritenesse davvero essenziale del proprio capolavoro: la dimensione collettiva.

Rossini non pensava a Guglielmo Tell come a un’opera esclusivamente belcantistica ed era insomma pronto a rinunciare a momenti di canto anche eccezionali, convinto com’era che la completezza dell’affresco alla fine avrebbe comunque chiarito la portata del suo lavoro.

Tale dimensione collettiva si manifesta nella centralità del coro ma anche nell’ampia e sfaccettata compagine di solisti. Ogni età, ogni carattere e ogni affetto trovano la propria ‘voce’ in questo maestoso racconto lirico: la saggezza diatonica dell’anziano Melchtal che soccombe, l’argentino Pescatore che accompagnato dall’arpa in tempo processuale e composto allude invece al divenire di ogni cosa, il ragazzo Jemmy en-travesti che punteggia in acuto tutti i numeri di assieme come una stella polare della vicenda (il bene! Il futuro!), il cattivo Gessler la cui caratterizzazione vocale è sospesa tra fosco e grottesco e il suo sgherro Rodolfo la cui linea di canto è priva di dubbi, come solo i meri esecutori di ordini sanno essere.

Il terzetto di protagonisti poi è una sfida che Rossini ha lanciato alle generazioni future di cantanti. Una sfida che ancora oggi rimane aperta rinnovando il proprio fascino a ogni generazione.

Il Guglielmo Tell ha nella propria sinfonia iniziale un celebre galopp che qualunque compositore avrebbe riutilizzato nel finale. Rossini no!

Attraverso una poetica modulazione che da sola rappresenta tutto il travaglio di Arnoldo, sospeso tra rimpianto del passato e speranza per il futuro, si schiude inatteso un paesaggio sonoro celeste che trasfigura l’intera opera. È la celebre ultima scena del Tell in cui i solisti e il coro – la famiglia reale e quella epocale – si uniscono dando vita a un’ultima immensa cadenza di do maggiore. Mentre le parole dicono che “allo sguardo incerto errante tutto dolce e nuovo appar…”, Rossini forgia una cadenza che ha l’apparente semplicità che solo le invenzioni geniali hanno, una cadenza che conclude in modo trascendentale la

narrazione e con essa l’intera carriera del più grande operista europeo della propria generazione. Una cadenza che conclude senza concludere: nel disegno ostinato attorno al do sentiamo una descrizione dell’infinito che solo la musica può osare. Un punto di arrivo di una tale grandezza da lasciare ogni interprete del Guglielmo Tell ridimensionato nelle sue piccole scelte e con la sgradevole sensazione di chi stia al massimo lucidando le maniglie di una immensa cattedrale. Sensazione di ammirazione e reverente stupore che portò Mayerbeer a dire: “egli è il nostro Giove e tiene tutti noi nel palmo della sua mano!”.


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